Quando le chitarre cop

“QUANDO LE CHITARRE FACEVANO L’AMORE” di Lorenzo Mazzoni (ed.Spartaco,2015)

Ricordate la descrizione che Jorge Luis Borges dava dell’ “Aleph”? “Immaginiamo in una biblioteca orientale un’illustrazione di molti secoli fa. Forse è araba e ci dicono che vi sono raffigurati tutti i racconti delle Mille e una notte; forse è cinese e sappiamo che illustra un romanzo con centinaia o migliaia di personaggi. Nel tumulto delle sue forme, qualcuna (…) richiama la nostra attenzione, poi da questa passiamo ad altre. Declina il giorno, si attenua la luce, e man mano che penetriamo nell’incisione capiamo che non c’è cosa sulla terra che non ci sia anche lì. Ciò che fu, ciò che è e ciò che sarà, la storia del passato e quella del futuro, le cose che ho avuto e quelle che avrò, tutto questo ci aspetta in qualche angolo di quel tranquillo labirinto”… Bene, a volte capita di imbattersi in opere artistiche (anche letterarie , come in questo caso) in cui si ha la sensazione di essere inondati da questa sensazione di cosmicità e di “tutto” nell’uno. Non crediamo di esagerare se riteniamo che “Quando le chitarre facevano l’amore” di Lorenzo Mazzoni sia veramente ad un millimetro dal rappresentare questa tipologia di universo. Si parte con la convinzione – a leggere il titolo – di trovarsi nell’atmosfera “Peace, love & revolution” degli anni ‘ 60 e subito, all’immergersi nella lettura, ci si accorge di “navigare” in un oceano molto più complesso; in una trama che dipana in sé un’infinità di strade che aprono il varco ad altri sentieri, quasi sempre impervi. Si parte dal drammatico epilogo del regime nazista in Germania nel 1945 , allorquando scompare uno dei più fidi collaboratori di Hitler, ovvero Martin Bormann, durante l’avanzata delle truppe sovietiche. Una ventina d’anni più tardi inizia una “caccia all’uomo” ad ogni costo con qualsiasi mezzo, apparentemente per uno spirito di giustizia. Ma si stenta a raccapezzarsi nei meandri delle logiche e delle motivazioni che ogni “attore” coinvolto in tale impresa mostra e cela al tempo stesso. In uno sfondo geografico che si estende dall’Europa all’America del nord e del Centro fino all’Asia , allora al centro dell’attenzione per la guerra in Vietnam  e per i movimenti antimilitaristi e di manifestazioni all’insegna di pace, musica e droga, troviamo letteralmente di tutto: Cacciatori di nazisti di più nazionalità e ruoli, una organizzatrice di eventi di copertura che si occupa di reclutare tali “cacciatori” con espedienti poco leali, un presidente di stato che si “moltiplica” fittiziamente tramite diversi suoi “sosia” tra cui un attore cieco che  se la cava niente male nel girare il mondo nonostante la sua menomazione fisica, e altro ancora. Nel frattempo quello che si ritiene essere il motore di tutta la vicenda , sembra essere lo stesso che, in qualche parte del mondo e sotto un’altra identità costruita fittiziamente, finanzia , cercando una sorta di “autoredenzione” dal proprio passato, una rock band molto nota al pubblico americano e  che propugna , come molte altre , il trionfo dell’amore e la fine delle ostilità, tra una limonata all’lsd e l’altra. Ma è davvero tutto così lineare come sembra? O avremo ulteriori sorprese?

Il genio di Mazzoni riesce a fondere tutte gli elementi esplosivi della vicenda quanto e forse più del cocktail micidiale a base di limone e lsd che il “manager” della band Martin Bormann presunto ex –nazista sotto le mentite spoglie di Martin Weiseberg prepara regolarmente ai suoi “ragazzi” della band. Quando la narrazione incalza sotto l’incedere delle sequenze , a volte alcune  notazioni climatiche contribuiscono sapientemente a farci entrare nell’atmosfera piena del paese e dell’ambiente dove ogni volta si sposta la virtuale macchina da presa dell’autore. La dimessa rassegnazione controbilanciata da uno stanco quanto ineluttabile senso di dovere e fuga è quella che conduce per mano Luigi Portaleone, l’italiano cacciatore di nazisti fumatore accanito che dietro ad un apparente senso di dignità professionale viene spesso logorato dai “non importa” che spesso ritornano durante la sua vicenda; come se l’unica forza motrice fosse quella dell’agire senza chiedere spiegazioni: uno dei più grandi marchi di infamia che l’umanità ha subito (quello dei crimini nazisti) non ha bisogno di ulteriori motivazioni; e Luigi è l’antitesi di qualsiasi senso di poesia, senso artistico , realtà da interpretare; proprio egli che non ha la minima cultura musicale, si vede costretto a erudirsi alla svelta sulla musica rock più in voga del momento e a vestire i panni di un falso giornalista musicale per “abbordare” meglio il suo obiettivo che prevede di incontrare in presenza della rock band, per fargli una fittizia intervista come “tranello” per acciuffarlo.

Ma ad un occhio più  “panoramico” risulta evidente come in questo “calderone” caldo e colorito non si salvi nessuno se non le chitarre, per l’appunto, ovvero la musica, l’innocente musica che qui però potrebbe quasi essere vista con un retroscena di colpevolezza involontaria. L’ idea di far parlare le chitarre in prima persona come fossero esseri viventi evidenzia la passività più che l’attività del ruolo che la musica dovrebbe avere di unione, risoluzione, rappacificazione;  ma in realtà qui non si intravede nelle parole delle “protagoniste loro malgrado”, un senso di vittoria ma piuttosto di osservazione passiva e impotente, come quando – ad esempio – constatano di essere “mal suonate” dai loro esecutori spesso strafatti di alcol e sostanze stupefacenti. Sin dalle prime battute del testo ,a partire dalla figura della tremenda organizzatrice di eventi di copertura Lolicia Smith, in realtà una spia priva di qualsiasi scrupolo, si vede come ogni evento nasconda facilmente il suo contrario, la cultura e la solidarietà non siano altro che due parole che servono per finanziare efferate azioni di spionaggio e ulteriori azioni di guerra come sempre con fini economici; e si nota come ognuno dei personaggi agisca sempre anche un po’ per fini di riscatto personale, tra noir e arte varia, tra politica e geografia. Una matassa enorme e ,come si diceva, cosmica, in cui la scelta dell’ambientazione storica tra uno dei momenti più tragici della storia dell’umanità e uno di quelli più rivoluzionari congloba in una fusione perfetta la ricerca disperata di una salvezza che non arriva se non nella fuga o nella morte al di fuori dei riflettori della storia di quasi tutti i protagonisti; Una resa dichiarata è poi la lettera che Martin Weisberg (il “falso” Martin Bormann) scrive all’amico generale vietnamita rivelando, al termine del romanzo, la vera vicenda e la vera sua identità.

Dopo un siffatto percorso è ovvio che il lettore non può sentirsi tranquillizzato e sollevato ma ne esce con la constatazione che quasi sempre  ben guardare, “Niente è come sembra” e la diffidenza verso la politica e  il genere umano in generale non sono frutto di qualunquismo ma naturale conseguenza di chi voglia davvero affrontare con vero impegno e senza alcuna pietà le logiche e le dinamiche dell’imprevedibilità dell’essere umano allorquando questo dia libero sfogo al suo intero ego malato e sfrenato. La storia, dunque, vista come conseguenza dell’essere dove anche gli spunti positivi che qui possono essere quelli culturali e benefici paiono avere sempre un risvolto negativo se portati alle loro conseguenze estreme. E dunque ci pare quantomeno ragionevole richiamare alla mente  l’eco inquietante delle parole di Brunella Gasperini, giornalista e scrittrice italiana oggi pressoché dimenticata, ma le cui parole scritte alla vigilia della morte, alla fine degli anni ‘ 70, suonano oggi sinistre quanto profetiche e tenebrose: “Non crediamo più a niente, neanche – si fa per dire – alla verità.”

 

L. M.

www.edizionispartaco.com

 

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