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“TORINGRAD” di Darien Levani (ed. Spartaco, 2016)

“ATTIMO, FERMATI , CHE SEI BELLO!” esclama il Faust di Goethe  per sottolineare la rarità dei momenti felici che arrivano e passano rapidamente nella vita. Chissà se Darien Levani, autore di origine albanese ma da tempo vivente in Italia, aveva in mente proprio questa immagine nello scrivere l’introduzione del suo “TORINGRAD”, romanzo ambientato tra l’Italia e l’Albania.  “Come fai a riconoscere la felicità mentre la stai vivendo e sussurrare a te stesso “Ora fermati sii felice”?”. Così esordisce la narrazione , ma nessuno si illuda di intraprendere un percorso di sapore “new age” o di facili soluzioni delle proprie ricerche personali. Tutt’altro è il mondo che ci si prospetta in questo viaggio violento e inquietante in mondi “sotterranei” ma non troppo. “Toringrad” è il curioso nome che Drini, , ex studente universitario, decide di conferire al suo bar che apre nel capoluogo piemontese, che si rivelerà anche un “centro” di incontri e affari loschi in cui si ritrova coinvolto suo malgrado dopo che il cognato, Petrit, viene arrestato: dovrà dunque essere lo stesso Drini a intervenire nel complicato e rischiosissimo giro di “consegne” di droga. Da qua si snocciola un mondo terrificante pur nella sua relativa prevedibilità, dove incontriamo prostitute, slot machines, ex – poliziotti che fanno la cresta sul guadagno delle donne di strada, ma soprattutto assistiamo alla “formazione suo malgrado” di quello che forse sarebbe voluto essere un “ragazzo tranquillo” . Non c’è traccia qui di facili o affannosi tentativi di distruzione di luoghi comuni secondo cui certe “civiltà” sono portate a un certo tipo di attività criminali piuttosto che ad altre; non è questo il tema trattato, anche perché caso mai tali convinzioni si auto distruggono o si autoalimentano a seconda di come si voglia leggere la vicenda che peraltro coinvolge anche attori di varie nazionalità (a cominciare dagli italiani). E oltretutto sin dalle prime righe del testo l’autore sembra “metterci in guardia” in merito quando accenna all’aiuto che gli Albanesi diedero ad alcuni italiani sfuggiti alla barbarie nazista durante la seconda guerra mondiale. E forse non occorre aggiungere altro per chi voglia intendere.

Ma quello che può per noi essere più interessante è notare la lucidità fredda e spietata che non trascura una dolcezza fra le righe, di questo io narrante: rigido e fermo nel descrivere la matematica , potremmo dire, del mondo con cui ci si trova costretti a fare i conti. Prima di tutto perché essenzialmente di soldi si parla, (e sui calcoli non si può discutere; nel caso, le armi sono sempre dietro l’angolo), ma poi anche perché tutta questa realtà costruita su ricatti, odio, prevaricazioni come ragion d’essere, non ammette alcun tipo di sgarro; o peggio, sembra non aspettare altro per potersi vendicare su chi quegli sgarri te li fa per “arrivare prima di te” nel senso lato del termine. Si potrebbe dire che è  un ‘umanità che ha bisogno del prossimo per poterlo fottere.  E allora bisogna scavare nel tufo della narrazione per trovare i lampi di umanità e di intelligenza sensibile che distinguono Drini dal mondo dove è costretto a sopravvivere più che a vivere. Alcune osservazioni come “C’è gente che non riesce a capire che controllare il territorio non serve più a niente” mettono in luce la lapalissiana constatazione che anche nel mondo parallelo dell’illegalità estrema che crede di sempre di farla franca, “la realtà è più avanti”. Come pure il fatto che, quando Drini rifiuta la percentuale sulla droga da smerciare al bar Toringrad , “Non si capacitavano di come uno potesse rinunciare a tutti quei soldi”: perché si da per scontato che il denaro è davvero il Dio che piace a tutti. Del resto Drini sembra quasi essere uno di quei “riservati dalla parte giusta” che si trovano ad essere coinvolti nel mondo dei “riservati dalla parte sbagliata” , ovvero di chi agisce nel mondo dei traffici da svolgere nell’ombra apparendo al pubblico con – magari anche rispettabili- ruoli e attività di copertura. A tal proposito si fa cenno spesso al volersi tenere al riparo da “occhiate indiscrete”, come fanno i giocatori per pudore del loro vizio: e Drini coglie questa “impurità” con occhio empatico, come li capisse, come volesse anch’egli continuare a passare inosservato ma in un senso sano, non perverso come il gioco troppo grande cui è sottoposto.

Anche i “sensi doppiamente acuti” di cui Drini si mostra dotato, fosse per lui servirebbero a godere di odori , suoni, colori del semplice mondo a lui  circostante e che invece gli servono per tenere altissima la guardia in ogni “microazione”, specialmente quando si tratta di consegne di “roba”. Al punto di rivelare un acume quasi degno di un esperto teatrante , quando si afferma ad esempio che “fare niente è facile, fingere di non fare niente è difficile”, per cui Drini può capire le intenzioni per quanto ben celate di qualsiasi individuo , specialmente di quelli con cui deve per forza di cose avere a che fare.

Sensibilità sprecata, quella di Drini? A tratti verrebbe quasi da pensarlo, intriso com’è di molteplici sensazioni che partoriscono florilegi di spunti:  a cominciare ricordi della sua terra di origine che, nel confronto con la società comunista tanto auspicata dai genitori, gli fa quasi rilevare che ogni epoca ha  il suo modo di far soffrire e star male una civiltà , la differenza forse  sta solo nel fatto che “allora si stava male tutti insieme” , oggi invece si muore lentamente , ma da soli . Nell’incontro con una prostituta Drini si sente a volte di troppo, come fosse consapevole di non essere il tipo di cliente che la “professionista” aspetta. E nella sua immaginazione fa riferimento a un frammento di arte, una canzone di Piero Ciampi (“40 soldati 40 sorelle”) fugacemente evocata per sublimare il ruolo di figure umili e fuori dal tempo che insieme si uniscono per fuggire e cercare di creare un mondo nuovo, come potrebbero essere lui e la ragazza se potessero utopisticamente isolarsi dalla cruda loro realtà. Del resto anche nella fase finale del libro Drini cerca alla radio vecchie canzoni “come quelle che non se ne fanno più”, arrivando al paradosso di affermare “Non sono triste, vorrei esserlo”. Ed è curioso che sensazioni di un uomo semplice e sensibile (come il protagonista –a questo punto – non può più permettersi di esserlo nella realtà “pratica”) vengano quasi rimpiante e soprattutto anelate attraverso le canzoni, la forma artistica forse più snobbata e bistrattata ma che proprio nei momenti più duri o autentici, come già quello sopra citato, restituisce la nostra spontaneità “proibita” dal mondo  circostante. E quando , a proposito di autenticità , si fa riferimento alle “radici” , è proprio per domandarsi se si è in un certo modo perché si proviene da un’area geografica : Ancora nel momento culminante della fase del crimine, si ha tempo per ricordarsi che il fatto di farsi sempre tante domande , anche in particolari apparentemente minori (come , ricorda Drini, da quale lato farsi il segno della croce ) gli proviene dalla cultura dei padri e dei nonni. Il Drini di oggi come figurerebbe di fronte a questo modo di intendere i particolari della vita?

Drini si può salvare con gli incontri puri e semplici perché, come dice lui , semplicemente gli uomini sono destinati ad incontrarsi. E se è vero che “la vita è l’arte dell’incontro”; ecco che anche un semplice incontro con una prostituta- che lo “salva” con la sua presenza senza chiedere in cambio “né soldi né promesse” – “assolve” un’ umanità che ha ben poche speranza di salvezza pratica se non continuando, come si diceva a fare e farsi domande. E la domanda su cui il romanzo si chiude , fatta dalla prostituta a Drini è tanto semplice quanto spiazzante , teatrale e totalizzante: “Chi sei tu?”.

L.M.

www.edizionispartaco.it

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