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“LA PROPRIETA’ TRANSITIVA” di Nelson Martinico e Federico Ligotti (Ed. Spartaco , 2015)

“Una spirale da cui non si esce”. E’ questo il giudizio sintetico e freddo che ci sentiamo di dare , atrofizzati e sconvolti dalla lettura di un romanzo crudo e insieme composito come “La proprietà transitiva” di Martinico e Ligotti. La casa editrice Spartaco si dimostra ancora una volta coraggiosa, innovativa e ardita nella scelta evidente, perlomeno nella sua collana “Dissensi” , di promuovere opere complesse, di autori talentuosi e le cui trame , nella loro fittezza , sciorinano argomentazioni non scontate e intricatissime, ai limiti dell’universalità che come nell’”Aleph” di Borges viene ricercata , si direbbe , per spiegare la realtà nella sua totalità da qualunque punto la si prenda . Per una specie di paradosso, a volte gli argomenti che in altri tempi sarebbero potuti suonare come scomodi o scandalosi, in molti dei testi di tale collana appaiono più che altro delle “sfide” , quasi delle barriere di fatto già superate o che si stanno per superare ma di cui resta ancora la parte più delicata da sviscerare e da elaborare con la complicità o forse la competizione col lettore che indirettamente è invitato a essere parte di tale arduo compito.

Ebbene : nel testo in oggetto il tema scottante della transessualità è in certo senso estremizzato perché letteralmente portato “al potere”. In un’immaginaria (ma forse non troppo) Italia futura dell’anno 2040 assistiamo alla scalata alla presidenza del consiglio dei ministri di Alessandro Giacobbe, transessuale abbandonato dal padre in giovane età e rimasto altrettanto presto orfano di madre. La “matassa” che si dipana lungo le oltre 200 pagine è sostanzialmente la storia in retrospettiva e in prospettiva della sua vita dall’infanzia atroce alla scalata al potere che può veramente dirsi , come suggerito dal dorso di copertina, una rivoluzione utopica. L’ambientazione tra la Sicilia tipica della mafia spietata e dominante e Roma non solo capitale d’Italia ma anche “centro” di manipolazione del potere, è emblematica e “racchiude” in senso  quasi costrittivo e depressurizzante i personaggi che paiono rincorrersi in una gara spietata al dominio e anche alla sopravvivenza. Le trame che si intrecciano sono tante e la suddivisione in tanti brevi capitoli con ogni volta un narratore e dunque un punto di vista diverso, non lascia alcuna tregua al lettore che di volta in volta è costretto ad assumere in rapida successione , i panni e gli “occhi” di ogni io narrante (dal protagonista alla madre, dallo zio deputato all’investigatore nuovo compagno della madre del protagonista; qualche volta addirittura il racconto è descritto coi semplici dialoghi dei personaggi in scena senza descrizioni di narrativa).  Il futuro forse utopico e apparentemente un po’ surreale ma dove si riconoscono elementi realistici è di fatto dominato da un benaugurante “Concilio Vaticano III” che apparentemente apre le porte anche a persone secolarmente emarginate (salvo poi capire che anche qui ci sono dietro i soliti giochetti opportunistici) e dal movimento politico “liberalsocialista “ cui fa capo lo stesso Giacobbe. E’ da vedere se le premesse di un futuro che si auspica rivoluzionario in un modo abbastanza anti tradizionalista poi porteranno ad un lieto fine o ad una  sospensione  dove la parola fine non può mai essere del tutto scritta perché il mondo , realista o utopista, è sempre in evoluzione.

Davvero tanti gli spunti offerti da questa opera che non esiteremmo a definire quasi monumentale (non per la lunghezza, relativamente contenuta), ma per i colori incredibili che le strade della narrazione sprigiona nella crudeltà dei fatti narrati come nella grande umanità anche negli aspetti più scandalosi (nel senso tecnico , non moralistico del termine). E al di là dell’idea che ogni lettore si può fare lasciandosi letteralmente permeare dalla violenta cascata di sensazioni che l’opera propone, resta la sensazione di impotenza di intervento, se non a carissimo prezzo, su una realtà che fra le righe dei dettagli è “pennellata”

in maniera imprevedibile e spiazzante. Un brivido ci percorre la schiena a pensare che in apertura di libro si faccia riferimento a un cantautore di mezzo secolo prima per spiegare il soprannome del protagonista  ovvero “Princesa”, come  il titolo della Deandreiana canzone; del resto anche la denominazione “TRANS “ giocata anche sull’assonanza con “Trasformismo” può essere vista come la chiave di lettura di tutta l’opera: quello politico che naturalmente la fa da padrone tra schieramenti che assumono nomi inquietanti e fa da paravento agli omicidi mafiosi che cadenzano quasi con una loro musicalità dissonante il ritmo “trivellante” della vicenda narrata. Ma anche i nomi di alcuni piatti tipici della località preparati da un ristorante gestito da un mafioso che si “mutano” in un gioco di parole : il “Salmì” culinario è anche il soprannome di un mafioso , uno dei tanti da eliminare nella terra del “dominus” Don Ignazio Raisi che padroneggia il destino della popolazione di quel lembo di Sicilia in mano alla mafia. La trasformazione che fa più paura ai potenti è quella della cultura, di cui il ragazzo Sisinno si fa portatore nel tentativo riuscito di uscire dalla sua condizione di apparente minorato; con lo studio del latino e della letteratura classica in cui si rivelerà un portento – con grande orrore del padre che lo vorrebbe  ignorante e obbediente-   assume un riscatto emblematico ,al punto di diventare il consulente cinico e spietato di Giacobbe: la sua intelligenza e la sua cultura lo spingono ad una idea determinante: l’introduzione della patente di voto per “scremare una buona fetta dell’elettorato tradizionale”; anche questa è una trasformazione della tecnica della democrazia e dunque delle TESTE pensanti: chi ignora alcune nozioni delle funzioni dello stato verrà escluso dal voto in modo da trasformare la realtà e approvare un cinico riavvicinamento tra Chiesa e cittadini, per neutralizzare fenomeni di corruzione come il voto di scambio! E questo, nei piani quasi riusciti di quello che sarà il nuovo presidente del consiglio, porterebbe al recupero e al ritorno di elementi che ormai sembravano irrimediabilmente perduti: la lentezza, la poesia e forse la felicità. Una sorta di “omeopatia” al potere che fa quasi il paio col cinismo con cui Quinto Tullio cicerone suggeriva nel “Commentariolum Petitionis” i trucchi per condurre una efficace campagna elettorale e vincere le elezioni. Insomma ,come si diceva all’inizio: per un verso o per l’altro, da questa spirale reale non se ne esce. Sembra quasi obbligato dunque “fottersi” anche per una rivoluzione utopica che ancora più cinicamente, se possibile, conclude per due volte la sua parabola con le due parti , quella “giusta” e quella “sbagliata”, se vogliamo semplificare , che si autostimolano ciascuna al proprio interno a portare avanti il compimento dei piani o della vendetta citando in maniera inquietante il Primo levi di “Se non ora quando?”

 

L.M.

www.edizionispartaco.com 

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