Cop mamma a carico gianna coletti

“MAMMA A CARICO” di Gianna Coletti (ed.Einaudi, 2015)

Che il concetto di “famiglia” cambi con i tempi non è certo una novità; Ora si parla di “Famiglia adolescente”, di “ruoli” non più chiari nel rapporto tra i figli e i genitori, di padri e madri che difendono i proprio figli anche quando (ad esempio a scuola) si rendono responsabili di azioni e frasi quanto meno discutibili…Ma non è una novità neppure che per “corso naturale” , per così dire, i ruoli fondamentali di accudimento tra genitori e figli possano invertirsi. Detto semplicemente, da bambini veniamo seguiti, protetti ,  all’occorrenza anche redarguiti da “loro”…in vecchiaia è probabile che poi tocchi a noi fare altrettanto nei loro confronti. Così succede a Gianna Coletti, brillante attrice italiana, che nella sua opera prima “Mamma a carico”, descrive il percorso finale della vita della mamma Anna che viene affettuosamente chiamata “la mia vecchia”.

Il sottotitolo “Mia figlia ha 90 anni” è in questo senso emblematico: ora è Gianna che deve far da madre a sua madre. Una madre , si direbbe, atipica: in vita sua ha fatto di tutto in maniera quasi ossessiva per fare in modo che la figlia potesse realizzare il sogno professionale che LEI (Anna) non è riuscita a concretizzare in vita sua. Quale sarebbe questo “sogno professionale”? Ora si penserà…il medico? L’Avvocato? No, l’attrice! Proprio uno di quei mestieri che i genitori spesso cercano di “scongiurare” perché “di arte non si campa”! E invece Anna fa di tutto nella vita per donare alla figlia quella completezza artistica che Gianna poi si ritroverà come dono spirituale unita a una grande verve ironica che costituirà il suo “marchio di fabbrica” e che l’aiuterà anche in questo difficilissimo quanto arricchente percorso .

Anna è nella sua fase  terminale; priva della vista ormai da almeno una quindicina di anni , è ormai in balia degli eventi. Solo Gianna costituisce il suo punto di appoggio e di riferimento, il suo aiuto concreto e morale. Anna ha un carattere testardo e volitivo, di fatto non si rassegna alla sua condizione e quello che potrebbe di fatto sfociare in un immobilismo fatto solo di “attesa della fine” ( o , peggio , per dirla con Giorgio Gaber, “quello stupido riposo in cui si aspetta la morte”), si trasforma in una commedia tragica e grottesca al tempo stesso. Gianna si adopra perché la sua mamma viva questo ultimo tratto nel migliore dei modi e utilizza tutti i mezzi possibili, fra comforts tecnologici, badanti, sostegno psicologico fatto anche della sua arte , giochi di memoria, gesti fisici e qualche piccola litigata di “scuotimento”.  La cifra baldanzosa e giullaresca di Gianna, con uno spirito di fondo in bilico fra Bergson e Achille Campanile, stempera e alleggerisce quella pesantezza di fondo che è intrinseca in fasi come questa. (Vedi affermazioni come “La testa (della mamma) non è più quella di prima , ma anche quella di prima non era granché”). E ci sono anche continui giochi di rimando tra il pesante presente e il passato dinamico a sottolineare questa situazione di fondo ( quando si accenna ad esempio ai provini cui Gianna veniva sottoposta in giovanissima età). A contraltare c’è il fidanzato romano di Gianna ,Lorenzo; egli si dimostra molto più pragmatico e un po’ più prosaico di Gianna. Le sue frasi , poche ma efficaci, perlomeno a giudicare dalla narrazione, “risolvono” in maniera lapidaria le situazioni cui Gianna non sa spesso trovare risposte forse per paura o per ,a sua volta, incapacità di rassegnarsi ad alcune evidenze. (“A Già, te stai a invecchià cò tù madre…” ).

A sottofondo della vicenda ci si mettono anche i vari badanti in funzione ausiliaria che Gianna “assume” a seconda delle necessità: Ecco che la vicenda assume tratti quasi comici quando si scoprono piccole “tresche” amorose fra gli stessi e se la badante femmina piange non è per presunte difficoltà con la madre di Gianna bensì…perché la “storia” fra lei e il collega non funziona o non è andata in porto come sperava! Ma la leggerezza di Gianna come autrice e osservatrice dei fatti interviene in queste come in altre meno evidenti circostanze degne di nota; ad esempio quando i badanti cercano di sottoporre alla “vecchia” qualche piccolo corso di lingue straniere (specialmente lo spagnolo) per tenere allenata per quello che è possibile , la mente di lei…e Anna “respinge” grottescamente al mittente l’impegno degli operatori assistenziali con “uscite” come “per parlare lo spagnolo basta aggiungere la “s” in fondo alle parole!”

Comunque sia , il tratto forse più evidente che fa da comune denominatore è questo comprensibile e umano attaccamento alla vita a tutti i costi. Non si vuol lasciare la vita quanto più intensa è stata (addirittura Anna ad un certo punto dice di voler ricominciare l’attività  manuale coi massaggi professionali!); ma a “svelare” , nostro malgrado , gli aspetti più reconditi, ci si mette la psicanalisi: la psicologa di Gianna individua in Gianna stessa i problemi di fondo e non in sua madre: dipende da come vogliamo affrontare le difficoltà. Particolarmente toccante è in questo senso il capitolo dedicato alla “voglia di sognare”, quando il sogno inteso proprio come dimensione onirica del sonno non arriva, è inspiegabilmente assente…e l’autrice – attrice evoca nostalgicamente un Amleto che potrebbe rivelarsi salvifico con la sua consolatrice invocazione “Dormire …forse sognare…” e la cui assenza si rivela quasi una sconfitta da cui non si riesce a uscire e assume proprio le fattezze di una “tragedia” in tutti i sensi: la soluzione unica sarà quella morte che si tenta a tutti i costi di allontanare con ogni mezzo necessario; questi “mezzi” sono da trovare anche fra le righe del libro: a Gianna piacciono le piante , evocatrici di vita e natura e infatti va spesso a comprarle (tra parentesi il racconto si apre e si chiude con l’evocazione del trinomio vita/morte/natura con il riferimento alle ceneri della madre che verranno poste sotto alcune piante, perché la vita non si crea e non si distrugge ma “continua” nella sua trasformazione naturale). Ancora: Gianna vuole CAPIRE, anche quello che razionalmente non si può afferrare, quasi che fosse solo una questione di scienza o di ricette mediche . Nulla da fare. L’unica possibile soluzione è ancora una volta nell’arte. La “sublimazione” la si trova nel film che Gianna gira insieme alla regista Laura Chiossone “Tra 5 minuti in scena”, che riassume tutto e dove  finzione e realtà si confondono: vengono girate in diretta e dalla vita reale alcune scene di Gianna con la madre e vi si sovrappone l’allestimento problematico (di finzione) di uno spettacolo teatrale. Per Gianna questo è il top, potremmo dire “lenitivo”.

Il paradosso è che in questi “continui finali” che finali mai non sono (continui peggioramenti medici della madre che poi si “riassestano” e la fanno migliorare), si stravolge il “tempo” teatrale che dovrebbe costituire la cifra della dimensione allo stesso tempo personale della donna Gianna e artistica della stessa attrice /scrittrice. Il momento liberatorio arriva solo con la morte di Anna. A quel punto però la forza vincente di Gianna sarà aver dimostrato che la “composizione” artistica che sempre trionfa è quella del cuore. Lo stesso cuore che non fa perdere nemmeno per un attimo il ritmo “interno” della scrittura che si traduce nel mantenimento del ritmo della lettura e che fa trionfare sulla morte la “Bellezza” con la B maiuscola. La stessa dimensione che fa affermare a Gianna di fronte alla bara della madre “(Anna) è proprio bella”.

(L.M.)

 

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