Archivio della categoria: OCCHIO CRITICO – rubrica di recensioni

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“CHI HA PAURA DEI GRECI E DEI ROMANI?” – Maurizio Bettini (ed.Einaudi, 2024)

Si fa un gran parlare di “Radici”, di  “origini”, della  “nostra cultura” contrapposta a quella di “Altri”. E chiose comuni come “Prima noi”, “prima i nostri” , “prima la nostra cultura” e via discorrendo, semplificano le soluzioni per le frustrazioni quotidiane di chi le deve scaricare su “altri” e mai su se stesso. Già, ma da dove deriva cotale atteggiamento? E cosa rispondere a chi ovviamente respinge le accuse di razzismo magari definendosi semplicemente “culturalista”?

Ecco allora che può essere utile uno sguardo alle origini e alle sorgenti della civiltà occidentale . Chi ne ha paura? Si chiede Maurizio Bettini, scrittore e classicista. Il discorso si estende al punto da non limitarsi a ribadire l’importanza delle nostre origini storiche e  culturali , ma di diventare una vera e propria analisi sociolinguistica e di fatto politica.

Bettini opera un procedimento terminologico che parte dalla particella greca “Dià”, cioè “attraverso” e dalla parola “Differenza”, che viene definita come la parola “più difficile da pronunciare” da un’insegnante la cui intervista radiofonica viene riportata in brevi cenni. Già Cicerone riportava l’insidia della “differenza” come potenzialmente minacciosa fra uomini . Ma il problema centrale, sembra dirci Bettini , è l’uso distorto che si fa ormai di parole e di modalità di pensiero per piegarle a uso e consumo di vantaggi (o presunti tali) di carattere meramente utilitaristico. “Identità” e “Differenza” non dunque come occasione di confronto, ma di separazione e barriera. Attenzione però: contrapponendosi in maniera netta a questa “smania divisiva” si rischia di cadere nell’estremo opposto. E’ il caso della cosiddetta “Cancel culture”, che parte dai giorni nostri per arrivare addirittura agli albori della civiltà. Si prospetta dunque, anche da parte di titolari cattedratici, l’eventualità di cancellare parte di testi letterari storici perché ritenuti “sessisti” ; gli apici sono poi toccati con forme di razzismo, per così dire “a rovescio”, come nel caso della traduzione della poesia di Amanda Gorman letta per l’insediamento di Joe Biden: Non si può tradurla in olandese o in catalano perché non esisterebbe un traduttore “geneticamente idoneo”!!!

Per non parlare del caso del professor Dan-el Padilla Peralta, baccalaureato in lettere classiche che individua nella cultura classica, campo suo, la “,matrice di una cultura schiavista , razzista, suprematista” etc.etc. da cui prendere le distanze. E dunque ,per risolvere cotali problematiche , bisogna ricorrere all “Inclusione” a tutti i costi. In due parole, se studiamo i greci e i romani bisogna studiare anche gli egizi, i mediorientali , gli africani NE’ PIU’ NE ‘ MENO che tutte le altre civiltà. E come la mettiamo poi col fatto che le ore di insegnamento ,di studio (e più banalmente le 24 ore di una giornata) a disposizione per umani limiti…sono quello che sono? Mah!

A tali perversioni culturali, che portano a dubitare delle nostre civiltà originarie da sempre studiate a scuola in quanto seminali di maschilismo e di sentimenti razzisti di superiorità civile o altro, Bettini contrappone la saggia (apparentemente) soluzione del “Dialogo” fra persone e popoli. Con riferimento alla particella “dià” ,sopra citata, l’etimologia greca può tornarci utile e d’aiuto nella costruzione, forse, di una rinnovata civiltà.Da una domanda ciceroniana sulla possibilità di prevedere il futuro, emerge un dialogo (a questo punto parola chiave) in cui si sottolinea la necessità di rispettarsi reciprocamente anche tra mentalità opposte  (Credenti e non credenti / mistici e scienziati): col dialogo si raggiunge la conoscenza delle cose . Sul di esso insiste Bettini come soluzione per la paura delle differenze che porta anche all’eccesso di “zelo”, paradossalmente foriero di effetti complementari a quelli che si dice di voler combattere.

 

Purtroppo Bettini pecca forse di ingenuità non accorgendosi che anche la parola “Dialogo” negli ultimi anni ha assunto un formato “standard” come tante altre ed è entrata a far parte di quelle parole come “resilienza”, “libertà”, “democrazia”, talmente abusate da aver perso ormai efficacia, senso e significato. “Dialogo” in che senso”? verrebbe da chiedersi. Anche perché non è affatto detto che esso sia risolutivo. Non a caso spesso si dice “Dialogo fra sordi”, che è quello che non risolve le guerre ma anzi le alimenta ulteriormente.

Forse l’unica soluzione, sembra emergere da questa comunque preziosa lettura, è il vecchio e caro BUON SENSO. Ognuno di noi è chiamato in primo luogo e ruolo a coltivare la curiosità in ogni campo con rispetto e cognizione di causa, accettando il “confronto” (più che il “dialogo”) con l’Altro da sé in senso lato, senza illudersi di poter mettere d’accordo tutti e invitando gli altri di differente età, sesso , cultura , opinioni politiche a fare altrettanto. Solo così forse possiamo recuperare gli stimoli umani che tutte le discipline , (anche quella della letteratura classica di cui  qualcuno ,per convenienza politica o per perversione egotica è arrivato ad auspicare persino l’abolizione) , ci possono fornire, in ogni epoca, ogni giorno. (L.M.)

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“LA POSTURA NARRATIVA” di Paolo Trenta (ed.Castelvecchi, 2024)

Dopo la Pandemia da Covid-19, è emerso in maniera lampante (ma in realtà le “avvisaglie” c’erano già prima) un ripensamento della medicina intesa non solo come panacea, ma come CURA nel senso più ampio e profondo del termine. Non basta la medicina in senso stretto. Ci vuole una modalità di approccio inclusiva e globale . Da qualche anno è emersa in maniera rilevante la Medicina Narrativa, una disciplina che pone l’accento sul rapporto fra paziente  e curatore soprattutto dal punto di vista della parola che racconta la malattia e quella che poi la cura unitamente agli altri elementi di presenza.  Il sociologo Paolo Trenta, in questo saggio, si spinge addirittura oltre proponendo il concetto di “Postura Narrativa”.

La postura, nota generalmente come un atteggiamento prettamente fisico , è qui vista come un atteggiamento “totale”, di attenzione particolare verso quegli aspetti non tanto della malattia in sé ma del paziente che normalmente nella medicina tradizionale vengono messi in secondo piano. Il suo vissuto, la storia dello sviluppo della malattia e  la modifica della vita e dei rapporti sociali che questa ha implicato.

“Niente è meno innocente di una storia” e “non tutto è narrazione” si afferma perentoriamente. Affermazioni forti che mettono al centro la potenza dell’attività narrativa che molto ha a che fare con il teatro. Sguardo, modalità del tono, del ritmo, gestualità, cura nella scelta delle parole , sono elementi di capitale importanza per la strada verso la riconquista del benessere o del miglioramento psicologico non solo del malato ma anche di qualsiasi rapporto umano che abbia la CURA e l’EMPATIA come base convenzionale.

“(Occorrono) saperi, conoscenze, ma soprattutto un modo di guardare l’altro”, afferma Trenta. Un atteggiamento di estrema apertura al prossimo e al mondo , cercando non di sentire “come l’altro” ma CON l’altro, in una prospettiva che faccia uscire ognuno dalla zona di sicurezza, in modo che ci si possa far sorprendere dall’ ignoto e dall’imprevisto , agenti senza i quali non ci può essere evoluzione umana e “guarigione” intesa in senso ampio del termine.

Esplorazione e creatività sono gli strumenti giusti per arrivare, senza fretta , ci dice Trenta, a risultati sorprendenti che non escludono,( anzi sono complementari a ) la medicina tradizionale. Ma come dice Maristella Mancino nella postfazione , nella cura della malattia si può vincere o perdere; nella medicina narrativa che cura la psicologia generale della persona: SI VINCE SEMPRE.

All’esposizione di Trenta sono abbinati una serie di racconti di medici di vari settori a testimonianza diretta di questa relativamente nuova branchia attitudinale della scienza medica. Da approfondire e studiare con curiosità e volontà di dialogo sano inteso come crescita e reale confronto e non il “dialogo” come purtroppo si intende spesso oggi nel senso malato di “ricerca di compromesso”.

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Paolo Pasi: “SACCO E VANZETTI – LA SALVEZZA E’ ALTROVE” (Elèuthera, 2023).

Paolo Pasi : SACCO E VANZEETTI – LA Salvezza è altrove (ed Elèuthera- 2023)

 

“Altrove”. E’ un avverbio che può significare tante cose. Una fuga o una ricerca. O più semplicemente una speranza. Che non è necessariamente una ricerca di una vita in un “paradiso” che poi magari nemmeno esiste, anzi: una vita terrena più equa per l’intera umanità. E’ la sostanza del sogno anarchico, nel senso più nobile del termine , che ricerca la cessazione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e giustizia nella libertà .

Paolo Pasi, scrittore e giornalista, racconta così nel suo stile la storia degli anarchici Sacco e Vanzetti, vicenda che scosse un secolo fa gli animi di tutto il mondo per il grottesco e assurdo iter giudiziario che lasciò trapelare palesemente l’intenzione da parte della “giustizia” americana, di  far fuori ad ogni costo due innocenti solo perché ritenuti pericolosi per le loro idee e perché emigrati in terra straniera.

La vicenda è nota. E’ il modo teatrale e “scenico” di raccontarle che fa la differenza. Ma non solo. Nella sua sensibilità di narratore per vocazione e “cronachista” per destino, Pasi utilizza frasi rapide, spezzate, che indugiano sui particolari scenici ma anche sulla psicologia degli affetti; anzi sono proprio questi ultimi che sembrano prevalere spesso sulla vicenda puramente politica e simbolica. Passo dopo passo, seguiamo le vicende dei due protagonisti dall’infanzia, all’impegno politico fino all’emigrazione e all’arresto; la psicologia non fa sconti e noi entriamo insieme alla voce narrante resa come un reportage quasi in presa diretta, nei sentieri che conducono “in fuga dall’economia di guerra” , ma senza mai “abbracciare” un lavoro definitivo (anche la scelta dei termini è insolita e inducente alla riflessione sul senso ultimo dei gesti). Si lambisce più volte la caduta nella follia come rifugio inevitabile dalle conseguenze psichiche del dover subire un iter giudiziario chiaramente farsesco , nonostante i sempre più palesi indizi che portano all’evidenza dell’innocenza.

Pazzesca la descrizione dello scenario dell’esecuzione che apre e chiude la narrazione: la sedia al centro del palco e l’allestimento scenografico, mentre fuori qualcuno aspetta ciò che deve accadere. Sembra il corrispettivo tragico del moderno voyeurismo mediatico che subdolamente gode del patimento del mostro in carcere o sotto i riflettori. Ma qui no. Qui si grida al complotto e all’infamità. La “scena” è per fortuna lontana dai media allora limitati ai giornali o alla radio, ma purtroppo si sa bene cosa accade. Si uccide perché si teme un’idea di uguaglianza. E i boia giudiziari agiscono con “spregiudicata coerenza” mentre l’America, vista come Eden di riscatto, ora “si dissolve come una bolla”.

In tutto questo, a salvare dall’ impazzimento , per i due condannati, ci sono il conforto degli affetti che vengono sempre teneramente descritti tramite i dialoghi e le lettere che i due detenuti scambiano con i familiari e i compagni di lotte. E poi c’è l’ Arte. Essa sì, può sublimare la pazzia e la noia. Vanzetti scrive poesie, traduce dall’inglese alcuni opuscoli. E’ ,banalmente, un modo di tenersi occupati, di tenere allenata e viva la mente. E l’arte è sempre comunque presente anche fra le righe. Pasi, anche musicista e cantautore, nomina le “Vette musicali dell’istante”, che Sacco non riesce a toccare perché “assediato” dalla solitudine. (qui torna alla mente Piero Ciampi “L’ assenza è un assedio). Assenza di libertà che la solidarietà a livello mondiale non basta a lenire.

Dove si può recuperare la “salute” intesa in senso lato, come sanità mentale, psicologica ma anche solamente “logica”, in tutto questo?

“LA SALUTE E’ IN VOI” afferma Vanzetti nel suo ultimo discorso prima di essere giustiziato. Frase che suona come un “arrivederci”, come un sussulto di speranza che può solo riguardare il futuro: è quel “contraddittorio” che troppo spesso viene banalmente evocato come voglia di ribattere a chi non la pensa come noi, e che invece è quella libertà di pensiero che ognuno, mettendosi faccia a faccia con la propria coscienza , potrà salvaguardare per giudicare il tipo di azione commesso su due innocenti. Nell’ultimo dialogo con la sorella, Bartolomeo- “Tumlin” come viene affettuosamente chiamato-, parla trascendendo il regolamento carcerario perché – ultimo paradosso – “adesso non è il momento delle regole”. Proprio un anarchico , che contro le “regole dello Stato” comunemente inteso, lotta convintamente, può ora trovare uno spiraglio di quella libertà senza regole “anarchica”, appunto, che forse domani arriverà o tornerà per l’Uomo.

(L.M.)

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“LA MUSICA DEL FUTURO” di Roberto Manfredi – 2023. ed.Tempesta

ROBERTO MANFREDI – La musica del futuro.

 

“La paura del domani è sbagliata e tu lo sai” cantava Eugenio Finardi negli anni 70. Oggi che rispetto ad allora un “domani” è arrivato, ci si domanda se c’era e se c’è ancora da aver paura e di cosa, poi. Di una guerra? Di un progresso inarrestabile? Di qualcosa di subdolo e pervasivo che neppure si riesce a definire con chiarezza? Roberto Manfredi,  produttore discografico e divulgatore, propone la sua visuale sull’impatto che l’Intelligenza artificiale (il “tema del momento”, potremmo dire) sta avendo e avrà sul modo di fare musica. Manfredi sviscera gli aspetti della questione ragionando sulle potenzialità degli strumenti che si sono succeduti nel corso dei decenni per fare musica. Si guarda al passato e al futuro dei concerti live, della riproduzione della musica registrata , della radio e persino dei ruoli che hanno avuto e potrebbero non più avere gli esseri umani nell’arte musicale, canora e di conduzione dei programmi radiotelevisivi e nel web.

Manfredi non fa mistero della sua visione globalmente ottimistica dello strumento che oggi definiamo Intelligenza artificiale (ma che in realtà si presenta come ultima e più avanzata fase di un processo già in atto da decenni); enuclea i vantaggi del suo utilizzo sottolineando l’aspetto intrinseco della sua “laicità” (ma sull’utilizzo di questo termine c’è sempre molta confusione; non sarebbe più opportuno parlare di “democrazia”?) pur riconoscendo che le macchine restano pur sempre elementi “senza un’anima”. Si percepisce fra le righe anche l’inquietante panorama che può fornire il fatto di – come si dice -“riprodurre la nostra memoria” , quando l’AI non solo crea ologrammi che assurgono al ruolo di vere e proprie rock star virtuali, ma addirittura riporta in vita divi defunti del passato o comunque gruppi disciolti (si veda l’esempio della riunione virtuale degli Abba o di concerti con l’ologramma di Elvis Presley). Dove si potrebbe andare a parare dunque?: Un disperato tentativo di “vincere la morte” attraverso il resuscitare virtualmente i “miti” scomparsi ? Un puro divertissement di poco differente da un film biografico musicale? O cosa altro? Purtroppo è vero che “il passato tira più del presente” e in questo lo stesso Manfredi lamenta come di ciò sia una spia il fatto che i nuovi personaggi della musica siano “condannati a replicare” i successi di cantanti del passato per il fatto che il “nuovo” non interessa a nessuno. Ma è altrettanto vero che qui ciò che è in gioco è la modifica della dimensione delle nostre “percezioni sensoriali connesse alla musica”: Con una pervasività come quella della moderna tecnologia e considerata la tendenziale “pigrizia” dell’essere umano, il futuro (prossimo) sembra ormai segnato. La possibilità di clonare le voci (non solo per la musica ma anche per il mondo del cinema e del doppiaggio, non a caso attualmente in rivolta) e le persone, vive e morte,  sta forse per rendere l’umanità quasi “superflua”?

Il dibattito si apre ed è destinato a restare aperto. Il lettore è dunque invitato e anzi stimolato a farsi la sua propria opinione tra una panoramica dei “Guru dell’Universo artificiale” e una carrellata di artisti “generativi”. In generale, particolare interesse destano alcune informazioni come la storia della invenzione del sistema acustico olofonico negli anni ‘80 da parte dei fratelli Umberto e Maurizio Maggi. Forse si poteva fare a meno di dare a spazio ad alcuni ipertrofici “ego” di gente che sembra più preoccupata di sottolineare il proprio “essere artista” più che a dare spunti di riflessione sulla funzione della nuova frontiera tecnologica musicale. Il pregio della scelta di dare più punti di vista differenti restituisce la libertà al lettore di farsi un’opinione personalizzata dopo aver esaminato la questione nelle sue più complete sfaccettature. Del resto lo stesso Manfredi, nella parte a se stesso dedicata tra gli esponenti delle “generazioni generative”, afferma che noi “non siamo macchine” ma allo stesso tempo prevede che a parte forse in Italia, il “business della musica sarà totalmente artificiale”. A chi scrive pare assai rilevante l’intervento del giornalista Gigi Beltrame il cui fulcro si può ragionevolmente riassumere nella frase “Il pericolo più grande è quello di affidarsi ciecamente all’AI e cedere (ad essa) le nostre responsabilità”

La difficoltà di porsi con mente “integra” di fronte a uno dei temi del momento forse non concede la possibilità di dare un giudizio “definitivo” su un’opera pur pregevole e approfondita come questa. I grandi interrogativi che non sono affatto nuovi ma ciclicamente si pongono, forse addirittura a partire dalla rivoluzione industriale vanno sempre più verso, come suggerirebbe Umberto Galimberti, “cosa la tecnica può arrivare a fare di noi” piuttosto che noi della tecnica. Quasi inevitabile ormai chiedersi: anche la musica verrà totalmente automatizzata al punto di non aver più bisogno/ senso / necessità anche solo di scrivere una canzone , un brano musicale, un testo poetico? Al momento la risposta più plausibile verte ancora sull’uso che ne sapremo usare (anche se il citato Galimberti avrebbe qualcosa da obiettare) e dunque un semplice “DIPENDE DA NOI”. Nanni Moretti ribatterebbe: “E se dipende da noi è sicuro che non ce la faremo”. Ma noi controproponiamo : Cosa intendiamo per “NOI”? La massa o un “io, tu , lui” di chi ha sensibilità e competenza? Stiamo a vedere…

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“LE SORELLE MISERICORDIA” di Marco Ciriello (ed. Spartaco, 2017)

 

Gara, competizione, partita…forse sono parole d’ordine che, nella loro sinonimia definiscono meglio di altre, vorremmo dire, la sostanza della società di oggi ma in realtà sono sempre esistite. Non a caso lo sport è una delle discipline che meglio riassume la dinamica “interfacciale” della modalità relazionale dell’uomo sin dai tempi dell’antica Grecia . Quando poi ci si mette una partita “estrema” destinata comunque vada a essere perduta, come quella con la morte, allora è il momento di fare ricorso  alle armi più estreme o che tali noi riteniamo avere nel nostro “arsenale”. Non è facile descrivere le sensazioni provate nella letture di “Le sorelle Misericordia” di Marco Ciriello. Qua si possono ritrovare riassunte le sfide testé descritte in una situazione estrema e anche perciò ricca di situazioni vulcaniche paradossalmente vissute in una situazione che riporta alla staticità forzata (o ricercata) contrapposta a dinamicità di partenza incarnate dalle due protagoniste:  da una parte da Laura, campionessa di tennis che abbandona inspiegabilmente la finalissima che sta giocando in Australia perché , dice lei, folgorata da una apparizione sacra che la costringe a cambiare improvvisamente vita e visione globale ; dall’altra sua sorella Cristiana , costretta sulla sedia a rotelle dalla SLA , dopo una vita modesta e poco gratificante , che le farà emergere il cinismo e il disincanto che già la accompagnavano prima, ma ora nella sua forma più agghiacciante. Laura dichiara di aver abbandonato i sogni sportivi di gloria per dedicarsi totalmente ad accudire la sfortunata sorella minore.

In realtà , a partire da questo momento, la “partita a Tennis” della attività precedente di Laura sembra cedere il passo ad  un metaforico e  continuo ping – pong tra i diversi atteggiamenti verso il mondo; In apparenza Laura , forte della sua fede , utilizza ogni mezzo a disposizione per aiutare Cristiana a superare il dolore derivante dalla sua condizione; ma Cristiana , non credente , controbatte negando la possibilità di ricerca di qualsiasi “senso” logico della condizione.  A ben guardare forse però, si tratta di una partita competitiva che ora si gioca sul piano della dialettica speculativa di posizioni teoriche e dove la ricerca di aiuto è forse solo un pretesto per “vincere” la partita dell’affermazione personale che ognuno gioca nella consapevolezza che il mondo delle rispettive “vanità” se n’è ormai andato. (Laura non è più di fatto una campionessa di tennis, Cristiana laureata in economia e commercio non ha mai di fatto messo a frutto il suo titolo in situazioni appaganti).

Tutto il resto è un conseguente derivato da queste posizioni di partenza . La sapienza dell’autore  emerge nel confezionare passaggi emblematici dove, in maniera per lo più non didascalica , risplendono  i vari aspetti della questione che concorrono a costruire il “puzzle” della vicenda come un quadro composto da vari elementi ognuno è significativo: si vedano ad esempio, Calvinianamente parlando, la rapidità e l’esattezza e la leggerezza con cui è descritta l’”ultima partita giocata” da Laura che risulta poi essere il suo Match migliore, come una sorta di finale in crescendo di matrice Rossiniana ; oppure alcuni incontri verbali piuttosto coloriti (“Confondere il Credo con lo shopping” , come a risaltare la fede da “supermercato” che Cristiana rileva in sua sorella Laura nel vano tentativo di consolarla). In tutto questo panorama la figura apparentemente “vincente” ma che nel contesto risulta quella più banale è quella dell’allenatore di Laura, Claudio, cinico ed arrivista ,convinto che basti “capire i propri difetti e lavorare duro per eliminarli” per essere un uomo di successo e di risultati. E forse però, dal suo punto di vista, può avere ragione. Perché nel suo mondo non c’è spazio per i dubbi, la sua preoccupazione è che la Laura che ha allenato e costruito come campionessa, torni presto ad allenarsi, non può cedere ai sentimentalismi pur nobili e complessi che  accompagnano la sua pupilla. Il fatto è che nel momento in cui la questione concreta su cosa sia davvero lo sport, ci si accorge che non è lo sport in sé che fa sentire unici, perché più a livelli alti si sale, più si rimane “imprigionati” dal gioco, e forse la banalità del successo è una prigione tranquillizzante e speculare a quella “definitiva” di Cristiana. E’ dunque la fede la chiave della realizzazione? No, neppure questa è la risposta. “Vincere significa accettare” , come dice Roberto Vecchioni in una sua canzone. E dunque se Cristiana non ha altra scelta che accettare la sua condizione che la condurrà alla morte, anche Laura deve affrontare il suo calvario di dubbi che la porterà ad una sottile e sottesa “perdita” della fede per poi magari riuscire a trasformarla in qualcosa di diverso; e dato che le parole più efficaci sono – come in questo caso –quelle meno dirette, consigliamo ai lettori dotati di sensibilità di lasciarsi andare al magico fluire della preghiera che definiremmo “musicale” in cui si azzardano innumerevoli definizioni di Dio all’inizio del quarto capitolo e che precedono il viaggio a Barcellona delle due sorelle. Ma anche ,e soprattutto, al prezioso “interludio” che suona quasi come un soliloquio meditativo dell’autore, sulla definizione degli esseri umani viaggianti sulla “Cattiva strada” ( e anche qui riandiamo con la mente ad un altro esponente della canzone d’autore come Fabrizio De Andrè); e piuttosto che espletare (cosa peraltro moralmente proibita ad un recensore) il finale della storia, preferiamo chiudere il nostro sguardo sulla “scena di perfezione” che vede Laura andarsene mentre Cristiana rimane a guardare incantata e forse non più cinica per la prima volta, i tennisti che liberi nella loro danza elegante, librano i loro corpi non più in una vera e propria competizione ma in un pittoresco quadro di libertà e di serenità, forse ora ad un passo da essere raggiunta dopo tanta sofferenza.

(L.M.)

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“LA CANZONE DELL’IMMORTALE” di Paolo pasi (Spartaco, 2017)

Ponete il caso di essere appassionati di un genere artistico spesso ritenuto dai più “troppo rivolto alle masse” e quindi non considerabile del tutto tale. E immaginate un giorno di trovarvi di fronte ad un’opera letteraria o artistica che non solo nobilita quel genere ma lo fa al punto tale da elevarlo a crocevia risolutivo di una serie di problematiche esistenziali, politiche, sociali. Bene: il minimo che possa capitare è di rimanere sconcertati, a bocca aperta, e a maggior ragione se si ha la sensazione di trovarsi di fronte a un capolavoro letterario. Paolo Pasi, con il suo “La canzone dell’immortale”, non solo propone una viscerale dichiarazione d’amore per il genere della canzone (o come spesso si dice con malcelato snobismo , della “canzonetta”), ma addirittura- attraverso ciò – riesce a condensare con sapienza olistica (per così dire) le aspirazioni, le frustrazioni, le occasioni mancate e quelle ancora da mancare della mezza età tentando di ingannare in senso lato le umane dimensioni del tempo e dello spazio, quasi si possano bloccare e manovrare a proprio piacere con una maestria i cui connotati  sfuggono persino al lettore più attento. Del resto in apertura di testo si dice che “il tempo è irrilevante”, frase che solo un immortale di livello “tripla A” – come è e si dichiara il protagonista indicato come “LATO A” – può dire. Ma il fatto è che anche l’essenza e i privilegi dell’immortalità sono messi in discussione. E neppure il co – protagonista “LATO B” , il cinquantenne cantautore frustrato del “rating” “Classe B” può dirsi  del tutto “sconfitto” se curiose quanto insperate strade gli si prospettano soprattutto grazie alle geniali intuizioni della figlia .

 

L’ambientazione “planetaria” cui si fa cenno nell’introduzione ( dal “Pianeta eletto” proviene l’immortale del lato A e nel “pianeta delle esistenze perdute”  può essere collocato il mortale del lato B)  ci rimanda apparentemente ad una dimensione di felicità e di infelicità iniziale come i pianeti “FELONA E SORONA” dell’omonimo disco del gruppo “Le orme” del 1973 ; e come tali pianeti assisteremo ad un progressivo avvicinamento dei due poli che però non sarà mai dichiarato e riconosciuto dai protagonisti ,a differenza che nell’lp citato;  Ci troviamo  in una dimensione “trans- globalizzata”, dove i cittadini sono classificati con le stesse lettere del rating finanziario e dove il motto “Credere obbedire competere” rivela una sorta di fascismo come dimensione naturale dell’uomo “vincente” .  L’immortale smentisce le “ingenue visioni” sulla sua condizione, vista dai più come eterna beatitudine, svelando la sua, si potrebbe dire , “noia immortale” (invece che mortale), sempre in attesa di una canzone  che “squarci il velo paradisiaco della sua immortalità”. Condizione analoga e speculare al mortale “Lato B” che nel suo pianeta desolato vive il ruolo per lui avvilente di addetto dell’archivio digitale permanente ,dove si selezionano le canzoni da salvare e quelle da cancellare secondo un inquietante “indice di produttività emotiva” derivante dalle stesse sulla popolazione. Egli vive con una canzone “latente”, cioè da lui composta o abbozzata tanti anni prima ma poi dimenticata , che non riesce a ricordare e lo tormenta.  A trovare una possibile soluzione sarà la figlia Caterina suggerendogli di rivolgersi all’”ospedale delle canzoni” di cui egli fino a quel momento ignora la possibile esistenza: Forse lì troverà la sua canzone “malata”, ma finalmente “ricordata”.

 

In realtà il lato A e il lato B troveranno il punto di incontro nella figura di un compositore – cantore poeta in grado di condensare i reciproci riscatti : Per il “Lato A” quello di scrivere una canzone richiestagli dalla fantomatica immortale Elisia, per il “Lato B” quello di ritrovare la sua canzone e l’atto del suo talento naturale . Come andrà a finire?

“Niente è come sembra” ci ricorda Franco Battiato e qua sembra proprio di essere di fronte ad una serie di certezze che crollano, di veli che si squarciano, anche negli angoli più reconditi del nostro inconscio; Le canzoni, le musiche fanno parte della nostra vita e la questione preoccupante è che ora non servono nemmeno più a vendere ma a “far vendere”  come in una sorta di serie di scatole cinesi della logica commerciale, non come “mezzo”, bensì  come tramite per un ulteriore mezzo; In effetti fra le righe del testo c’è molto da scoprire; a parte le continue citazioni di brani soprattutto cantautorali che Pasi sfodera nel progresso della narrazione (che rimandano ad elementi della vicenda in quanto tale), vi sono dei segnali in codice che non fanno che aumentare l’inquietudine della perversione manipolante di questo mondo “di sopra” : A.Di.Pe. è l’acronimo di Archivio digitale permanente, dove lavora il nostro “Lato B”: letto così ci rimanda alla “crescita della pancia” che spesso contraddistingue la perdita di energia e la pigrizia crescente tipica della mezza età: dunque “comodità” nella pigrizia derivante dalla becera “evasione” delle canzoni stesse: insomma un ente digitale volto subdolamente a “controllarci” e ad “acquietarci”. Solo qualche volta a qualche abitante del pianeta terra capita la fortuna di venire “estratto” a sorte per uscire dalla routine dominatoria e avere una “seconda possibilità”; ma sembra essere il corrispettivo delle vincite al superenalotto o al bingo e quindi che tocchi ad uno piuttosto che ad un altro è, per l’appunto,  solo questione di fortuna.

E’ proprio la richiesta di una canzone- che turba l’imperturbabilità “presuntuosa” dell’immortale- l’elemento potenzialmente “risolutivo” che impedisce di far figurare il “Lato A” come vincitore della vicenda, anche se forse egli non fa granché per mostrarsi tale visto lo scarso entusiasmo che mostra nella descrizione di se stesso lungo le pagine iniziali; ma la sufficienza e la supponenza fra le righe che ad ogni “ripresa” (capitolo) a lui destinata emerge dalla sua loquela ce lo fa diventare irritante ed antipatico ed il fatto, come si diceva, della richiesta di una canzone da parte di Elisia , lo “abbassa” se non fra i comuni mortali comunque ad un piano di “raggiungibilità” e vulnerabilità dove nel nostro intimo lo possiamo già più facilmente accettare.

Del resto lo stesso fatto che i due protagonisti vengano indicati come  “lato a” e ”lato b” induce a ritenerli non due antipodi ma due facce della stessa medaglia, lato vincente e lato “perdente” o secondario, lato divino e lato mortale, in cui,  come in un disco, non è detto che il primo risulti di fatto migliore del secondo

Anche la psicanalisi non può mancare in questa serie di peripezie e dunque al nostro lato “b” è offerta la possibilità di uscire da quello che viene individuato come disagio generale, una strana “terapia” musicale con lo “psicomusico” Chioma. Ma in realtà la scoperta più interessante delle varie “ricerche” che vertono più o meno sull’inconscio è quella che capita all’immortale quando il compositore Taruk rivela quello che forse è il punto cruciale della questione, ovvero che l’ispirazione più profonda e dunque la creatività risolutiva può avvenire solo  nell’assenza, nel vuoto , nella dimenticanza ; il che è paradossale per un immortale che nega importanza o addirittura l’esistenza del passato e del futuro come significative esperienze delle dimensioni; ma tant’è : per uscire dalla “noia immortale o mortale” nulla v’è di meglio della creatività personale e più che dall’esperienza deriva dalla dimenticanza. Citando un successo del disciolto gruppo Aereoplani Italiani: “Non imparare ma dimenticare”!

Pasi forse “toppa” soltanto quando sembra colorire un po’ troppo la dimensione narrativa che arricchisce a dismisura la dimensione cosmica dei due protagonisti, forse nel timore di non dire abbastanza, di non riuscire in una titanica impresa quale è quella che sembra proporsi questo romanzo: la nobilitazione della forma canzone al punto da vederla come chiave di lettura del senso della vita. Ma è innegabile che ci troviamo di fronte ad un capolavoro del genere che, ci permettiamo di “modestamente proporre” tra il serio e il faceto, meriterebbe forse di essere adottato come libro di testo, se non nei conservatori, almeno al Centro Europeo di Toscolano, la scuola per cantautori e interpreti della canzone di Mogol.

(L.M.)

 

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“BUONANOTTE LEONE” di Marina Fedele (ed. Giacomo Morandi editore,2016)

“BUONA NOTTE LEONE” di Marina Fedele (ed.Giacomo Morandi editore, 2016)

 

Qualche tempo fa commentando l’estetica di un telegiornale della RAI si parlò di “panino”. Con tale denominazione si intendeva una modalità di informazione caratterizzata da una sorta di schema A – B – A dove “A stava per la parola affidata alle voci “governative” e “B” a quelle di opposizione, quindi con il fattuale “vantaggio” di 2 a 1 per le “controrepliche” di stampo governativo.

Chissà se lo schema del “panino” può funzionare anche per l’effetto reso da alcune opere letterarie dove , potremmo schematicamente dire, si “parte bene” per poi “cadere” e salvarsi in corner solo verso la fine dello scritto. A noi personalmente pare questo il caso del romanzo “Buonanotte leone” della scrittrice Marina Fedele. In una Italia  del dopoguerra che ancora , nonostante il boom economico, stenta a trovare una dimensione di stabilità , si susseguono le vicende di Nina, ragazzina irrequieta e ansiosa di conoscenza e di vita, affezionata al padre e allo zio che troppo presto se ne vanno dal mondo lasciandola rabbiosa (specialmente con quel Gesù che mamma e insegnanti le insegnano essere tanto buono) e persa nei suoi meandri di eterna sognatrice, poco ligia ai doveri scolastici e agli “schemi” tradizionali. Da lì comincerà il suo “viaggio di formazione”  scandito più che altro dai vari uomini che incontra sul suo percorso , e accompagnata dalla presenza reale ma allo stesso tempo simbolica del suo leone di pezza che un po’ le ricorda la sua infanzia e un po’ la conforta prima di mettersi a dormire come una sorta di coperta di Linus che anche da adulta le tiene compagnia.

Non riteniamo necessari ulteriori elementi per dare l’idea della “fabula” dell’opera, leggendo la quale poi ognuno potrà farsi la propria idea.  Ci pare invece interessante rilevare, come si accennava, una bella ambientazione iniziale evocata dalle canzoni degli anni ‘ 50 “nate per dimenticare una guerra poco lontana” e la metonimia a tinte rapide dei piedi danzanti che ne seguono il ritmo e la dinamica, mentre la colonna sonora preferita di Nina resta il valzer lento della Chapliniana “Fascination”; Il movimento artistico e leggiadro della danza si trasforma però ben presto nel movimento reale del trasferimento per lavoro del papà di Nina , che confluisce poi nel moto interiore tormentato della ragazza e delle sue vicissitudini successive. A partire da qui, la dinamica che si preannuncia interessante prende però una piega a nostro parere stanca e prevedibile, con periodi grammaticalmente molto spezzati e non molto distanti tecnicamente dai “pensierini delle elementari” e con episodi forse più interessanti nell’ambito della soap opera che non nella letteratura da romanzo. Ogni episodio è dedicato all’amore di turno ,si chiami Marco, Alessio, Diego o Alessandro, ognuno con il suo fascino e le sue beghe, nessuno che risalti o brilli per significative doti o caratteristiche, ma tutti cadenzati da una narrazione molto “tipica” e a volte frammentaria, con qualche eccesso didascalico e descrittivo (“abbastanza bene non vuol dire tantissimo” “cosa difficile ,molto difficile e più il tempo passava e più diventava difficile” e così via).

Solo verso la fine, quando anche l’ennesima avventura di coppia si rivelerà sostanzialmente un fallimento, la narrazione sembra “risollevarsi”, quando un giorno Nina viene a sapere per caso del ricovero dalla cugina Silvia, volontaria in una clinica privata, del ricovero di Marco, quell’amore impossibile o forse “impossibilitato” dalle origini causa allontanamento geografico forzato per lavoro. Marco vi si trova per una malattia rara accompagnata da una forma depressiva: il reincontro fra lui e Nina, dopo tanti anni , per la delicatezza del racconto e per l’attenzione riservata ai dettagli , alla fluidità dei sentimenti , ci sembra ciò che “riscatta” con dignità il resto del romanzo, che per il resto appare più un’occasione mancata, un tentativo un po’ goffo  di tracciare uno spaccato di vita quotidiana su un’Italia del dopoguerra su cui molto è stato detto e molto ci può essere ancora da dire , ma in merito a  cui, francamente, ci pare sia stato realizzato di meglio.

(L.M.)

Cop Paola Leye Grandi

“OSSA ,CAVERNE,LUPI,AMORE, TUTTE COSE SPAVENTOSE” di Paola Leye-Grandi (ed.La congrega delle ossa di Baubo,2016)

 

Avere paura può essere anche un’arte, che si impara a gestire . La poliedrica Paola Leye – Grandi , nella sua raccolta di frammenti lirici sembra esprimerci in sostanza questa perla di saggezza. Nella consapevolezza della transitorietà terrena Paola va alla ricerca cesellata e disperata ma piena di amore per le persone e gli elementi a sé circostanti, del lampo concreto da cui il senso profondo delle cose “accorre” simbolisticamente a salvarci . La poesia di Paola si fonde in un tutt’uno con le sue descrizioni, quasi non c’è soluzione di continuità tra gli elementi e le parole , specialmente quando si evocano corpo e terra da cui non si vuole avere scampo perché di quello siamo fatti e a quello sempre si ritorna, sembra dirci Paola fra le righe . Nella continua diatriba tra carne e ossa, tra cui sembra quasi dimenarsi il nostro istinto primordiale, il segno che possiamo lasciare alla madre Natura è affidabile ai due sensi principali come la vista e l’udito: Le ossa di Paola si ordinano, nell’ombra della notte, visivamente  in “ideogrammi” e acusticamente nella trama sonora della musica sprigionata dalle ossa, quasi uno strumento percussivo che , come nel “Somnium Scipionis” di Cicerone, ci può forse riavvicinare pacificamente all’universo di cui facciamo parte. Del resto una custode soprannaturale c’è anche in questo caso: E’ la Dea Baubo, come spiegato nelle note finali, una dea antecedente alla mitologia greca , dea dell’”osceno, cioè di ciò che non può essere messo in mostra , che non può essere visto, dell’occulto”. E sotto la protezione di Baubo, Paola scava e scarnifica fino all’osso (letteralmente, potremmo dire) , il mistero del nostro essere per cui però vale sempre la regola della trasformazione e non della distruzione. Paola usa spesso i colori del buio, all’ombra del quale ,come direbbe Céline, accade tutto ciò che è importante. Anche due estremi come Humus e Diamante (presenti nel brano “Ogni notte”) fanno parte dell’eterna dialettica dove ci si salva e ci si risveglia ogni mattina “nuovi”.

Ogni scoperta di se stessi però ha bisogno di cura, di amore, e di segretezza…e allora la Caverna è il luogo di mistero e conoscenza per antonomasia dove Paola trova se stessa, forse un suo doppio e “neutralizza” gli esseri spaventosi come i lupi, il cui aspetto terrifico è forse però l’altra faccia di una conoscenza di se stessi tanto tenuta quanto anelata. E Paola aggiunge la sua personale “ciliegina sulla torta” con una serie di fotografie che la ritraggono in pose diverse e in compagnia di un teschio quasi a complemento dinamico della celebrazione del corpo come bene prezioso o semplice contenitore di un’anima che fatica a trattenersi in un luogo e dunque ha necessità di “traboccare” anche visivamente; non a caso è nominata più volte la danza come proiezione vitale delle preziose parole finemente ricercate e con cura scelte dall’artista

E la morte? L’appuntamento ineluttabile per tutti? A chi dice che sia “sinistra”, Paola risponde con un prodigio linguistico affermando che essa è “A sinistra”, “un passo indietro, educatamente a chiudere le porte”. Forse uno dei messaggi più criptici dell’autrice ma intuitivamente si può vedere il rispetto nei confronti dell’inevitabile, come rispettosa è l’intera operazione di Paola che sa nella sua poetica trasformare le ossa in flauti o in Balafon e colorare di fluttuante musicalità l’essere profondo di cui ognuno di noi è fatto. E l’arte di avere paura di cui si diceva all’inizio può essere una compagna di viaggio arricchente grazie alla quale se si è curiosi, assetati , fiduciosi di se stessi, “in cima all’orizzonte vedremo il fondo del pozzo”, in un gioco di continui capovolgimenti di prospettive cui solo l’intuizione sensibile, più di tanto cervello, può dare una risposta di pace e di scoperta di se stessi.

(L.M.)

cop fratello john

“FRATELLO JOHN, SORELLA MARY” di Marco Ehlardo (ed. Spartaco,2016)

 

In un momento dove il tema degli emigranti e degli extracomunitari sembra tenere banco un po’ ovunque, ben venga, si potrebbe dire, un’ipotesi di punto di vista non molto spesso considerato perlomeno dagli organi “ufficiali” dell’informazione e di altra letteratura. E dunque chi meglio di un operatore sociale come è stato Marco Ehlardo, autore napoletano, per offrirci un’esperienza che sicuramente attinge anche al suo vissuto, in un campo difficile e problematico quanto affascinante e intricato. “Fratello John, sorella Mary” è per l’appunto un “rendiconto” dell’alter ego dell’autore Mauro Eliah. Il protagonista ci accompagna, per la seconda volta, nel suo mondo costellato di fatti e personaggi tragicomici ai quali viene offerta la possibilità di raccontare il loro personale punto di vista . Incontriamo così una coppia di  migranti africani, il John e la Mary del titolo che cercano protezione e aiuto come anche la piccola Flower, ragazza madre che dalla Nigeria si trova a dover compiere un viaggio forzato dopo la morte dei genitori, all’interno di una vera e propria tratta di prostituzione ad opera di misteriosi uomini di sporchi affari. E tocca dunque a Mauro essere il punto nodale, per così dire , dello svolgimento di tutte le peripezie, umanitarie e burocratiche necessarie tra mille difficoltà , dell’associazione di accoglienza in cui opera. La sottile ironia -che spesso si muta in giustificato sarcasmo – con cui propone il racconto delle vicende come io narrante ci aiuta a districarci con leggerezza ma anche con rabbia nei meandri di una difficilissima realtà quasi fossimo noi stessi a doverne assumere i ruoli attivi e di mediazione.

Ed è proprio in questo viaggio che abbiamo occasione di renderci conto e qualche volta magari sorridere in maniera agrodolce di figure che dovrebbero operare in tal senso ma che spesso si rivelano inadeguate e  quasi burlesche. In primis l’imprenditore che dice di sposare la causa dei migranti e propone l’idea di inaugurare una mensa per loro ma non ha intenzione di metterci neppure un centesimo per la sua realizzazione; oppure Federico , figlio di famiglia più che benestante disoccupato “per colpa del neoliberismo” ma che con i suoi ideali di comodo di estrema sinistra si vanta della sua associazione che si limita a “monitorare che chi gestisce i progetti di accoglienza lo faccia in maniera umana”; la sua figura è un po’ stereotipata ma perfettamente vincente nel lampo di scrittura e costruzione comica del personaggio. Troviamo poi l’operatore sociale Mohamed, pieno di determinazione e di buone intenzioni ma con un carattere troppo “multitasking” per essere del tutto presente e affidabile. E poi l’assessore comunale “più fumo che arrosto” che parla e “predica” molto bene ma che nei momenti difficili, invece di essere presente e d attivo, si allontana . La comicità fra le righe però non manca anche quando si sciorinano i vari nomi di associazioni e gruppi musicali che richiamano un po’ il Nanni Moretti di “Ecce bombo” : Associazione “8 luglio”, associazione “8 febbraio”, il gruppo musicale  “Fanculo a tutti” , l’associazione “I rifugiati e le rifugiate sono nostri fratelli e sorelle” . E lo stesso Nanni Moretti può esserci d’aiuto con il suo accorato monito “Le parole sono importanti!” quando Mauro ci ricorda l’impellente necessità di chiarire il significato vero delle parole , ad esempio chiarendo  la distinzione netta tra ciò che significa “migranti”  e ciò che rappresentano i “rifugiati” o i “richiedenti asilo”. Forse uno dei principali richiami del testo è proprio sull’importanza della parola e del modo di comunicare che è estremamente difficile in un ambito (ma non è il solo) dove tutti sembrano preoccupati più di affermare il proprio ego e le proprie esigenze di sopravvivenza o di arrivismo che di “parlarsi” ; anche la difficoltà di comunicarsi in lingue diverse (in questo caso fra l’io narrante e i co – protagonisti del titolo) può rientrare in questa logica. A contraltare e a “stemperare” il tutto ci salva però l’ironia spesso ,come si diceva , a livelli comici; anche il ritmo “spezzato” e scoppiettante dettato dalla brevità dei 52 capitoli che compongono il libro e che tra il ritmo rapido ma non frettoloso della narrazione, propongono anche delle “chicche” di genialità come la “tapparella razzista” dell’appartamento dove risiedono alcuni extracomunitari che sembra rompersi una volta a settimana e perciò scherzosamente ipotizzata tale. Tale ironia tocca punte estreme ma purtroppo realistiche quando si accenna ai corsi di integrazione che si dicono studiati apposta per favorire l’inserimento dei “fratelli”, ma che poi si rivelano dei semplici corsi di ballo o di musica d’insieme, rispettabili se si vuole ma non proprio finalizzabili ai nobili scopi che a parole si dice voler ottenere….

A suggello di tutto , ci pare notevole l’idea di inserire qualche excursus dettagliato come quello dove Ehlardo descrive un frammento di Napoli con desolata precisione e dove la geografia mista a storia e osservazione della vita attuale costituisce il cuore dell’amarezza di fondo della vicenda narrata: sembra quasi di sentire l’eco di una canzone di Edoardo Bennato del 1974 (“TIRA A CAMPARE”) dove descriveva la sua Napoli:

Sì è bella lo so che è bella
è la mia città…
Sì è stanca ed ammalata
e forse non vivrà…
Sì lo so che va di male in peggio
sì lo so qui è tutto un arrembaggio
qui si dice tira a campare
tanto niente cambierà… si dice:
Tira a campare
non cambierà
tutto passa bene o male
ma per noi non cambierà… si dice:
Tira a campare… non cambierà
tutto passa bene o male
ma per noi non cambierà…”

E chissà se Marco Ehlardo ha avuto nel cuore questo stesso sentore nello scrivere il  “resoconto” trasposto nel suo Alter Ego. Anche perché la conclusione non porta tranquillità nel seguire le “ultime ma non ultime” peripezie di Flower, il personaggio forse più inquieto ed inquietante dell’intera vicenda che non porta ad una risoluzione ma ad un continuo ricominciare da capo del suo interminabile viaggio, che è forse lo stesso viaggio di tutta l’umanità qui descritta : chi decide di intervenire si trova di fronte a continui muri di gomma che non sfociano quasi mai in vere e proprie soluzioni forse perché più che di risoluzioni si parla di affermazioni personali o di salvezza personale senza mai un vero e proprio occhio globale. E nel chiudere il testo ci domandiamo se forse non sia il caso di unirci alle constatazioni di Umberto Galimberti a proposito della vittoria della tecnica e della tecnologia sull’umanità che qui potrebbe apparire un fuori tema ma non lo è fino in fondo, se sempre di sopraffazione dell’uomo sull’uomo – per un verso o per l’altro – si va a finire di parlare: “Che fare? Nulla. (…) Perché parlarne allora? Per esserne almeno consapevoli”. E in un’importante consapevolezza, Ehlardo ci conduce e fa la sua parte.

 

(L.M.)

 

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“LA PROPRIETA’ TRANSITIVA” di Nelson Martinico e Federico Ligotti (Ed. Spartaco , 2015)

“Una spirale da cui non si esce”. E’ questo il giudizio sintetico e freddo che ci sentiamo di dare , atrofizzati e sconvolti dalla lettura di un romanzo crudo e insieme composito come “La proprietà transitiva” di Martinico e Ligotti. La casa editrice Spartaco si dimostra ancora una volta coraggiosa, innovativa e ardita nella scelta evidente, perlomeno nella sua collana “Dissensi” , di promuovere opere complesse, di autori talentuosi e le cui trame , nella loro fittezza , sciorinano argomentazioni non scontate e intricatissime, ai limiti dell’universalità che come nell’”Aleph” di Borges viene ricercata , si direbbe , per spiegare la realtà nella sua totalità da qualunque punto la si prenda . Per una specie di paradosso, a volte gli argomenti che in altri tempi sarebbero potuti suonare come scomodi o scandalosi, in molti dei testi di tale collana appaiono più che altro delle “sfide” , quasi delle barriere di fatto già superate o che si stanno per superare ma di cui resta ancora la parte più delicata da sviscerare e da elaborare con la complicità o forse la competizione col lettore che indirettamente è invitato a essere parte di tale arduo compito.

Ebbene : nel testo in oggetto il tema scottante della transessualità è in certo senso estremizzato perché letteralmente portato “al potere”. In un’immaginaria (ma forse non troppo) Italia futura dell’anno 2040 assistiamo alla scalata alla presidenza del consiglio dei ministri di Alessandro Giacobbe, transessuale abbandonato dal padre in giovane età e rimasto altrettanto presto orfano di madre. La “matassa” che si dipana lungo le oltre 200 pagine è sostanzialmente la storia in retrospettiva e in prospettiva della sua vita dall’infanzia atroce alla scalata al potere che può veramente dirsi , come suggerito dal dorso di copertina, una rivoluzione utopica. L’ambientazione tra la Sicilia tipica della mafia spietata e dominante e Roma non solo capitale d’Italia ma anche “centro” di manipolazione del potere, è emblematica e “racchiude” in senso  quasi costrittivo e depressurizzante i personaggi che paiono rincorrersi in una gara spietata al dominio e anche alla sopravvivenza. Le trame che si intrecciano sono tante e la suddivisione in tanti brevi capitoli con ogni volta un narratore e dunque un punto di vista diverso, non lascia alcuna tregua al lettore che di volta in volta è costretto ad assumere in rapida successione , i panni e gli “occhi” di ogni io narrante (dal protagonista alla madre, dallo zio deputato all’investigatore nuovo compagno della madre del protagonista; qualche volta addirittura il racconto è descritto coi semplici dialoghi dei personaggi in scena senza descrizioni di narrativa).  Il futuro forse utopico e apparentemente un po’ surreale ma dove si riconoscono elementi realistici è di fatto dominato da un benaugurante “Concilio Vaticano III” che apparentemente apre le porte anche a persone secolarmente emarginate (salvo poi capire che anche qui ci sono dietro i soliti giochetti opportunistici) e dal movimento politico “liberalsocialista “ cui fa capo lo stesso Giacobbe. E’ da vedere se le premesse di un futuro che si auspica rivoluzionario in un modo abbastanza anti tradizionalista poi porteranno ad un lieto fine o ad una  sospensione  dove la parola fine non può mai essere del tutto scritta perché il mondo , realista o utopista, è sempre in evoluzione.

Davvero tanti gli spunti offerti da questa opera che non esiteremmo a definire quasi monumentale (non per la lunghezza, relativamente contenuta), ma per i colori incredibili che le strade della narrazione sprigiona nella crudeltà dei fatti narrati come nella grande umanità anche negli aspetti più scandalosi (nel senso tecnico , non moralistico del termine). E al di là dell’idea che ogni lettore si può fare lasciandosi letteralmente permeare dalla violenta cascata di sensazioni che l’opera propone, resta la sensazione di impotenza di intervento, se non a carissimo prezzo, su una realtà che fra le righe dei dettagli è “pennellata”

in maniera imprevedibile e spiazzante. Un brivido ci percorre la schiena a pensare che in apertura di libro si faccia riferimento a un cantautore di mezzo secolo prima per spiegare il soprannome del protagonista  ovvero “Princesa”, come  il titolo della Deandreiana canzone; del resto anche la denominazione “TRANS “ giocata anche sull’assonanza con “Trasformismo” può essere vista come la chiave di lettura di tutta l’opera: quello politico che naturalmente la fa da padrone tra schieramenti che assumono nomi inquietanti e fa da paravento agli omicidi mafiosi che cadenzano quasi con una loro musicalità dissonante il ritmo “trivellante” della vicenda narrata. Ma anche i nomi di alcuni piatti tipici della località preparati da un ristorante gestito da un mafioso che si “mutano” in un gioco di parole : il “Salmì” culinario è anche il soprannome di un mafioso , uno dei tanti da eliminare nella terra del “dominus” Don Ignazio Raisi che padroneggia il destino della popolazione di quel lembo di Sicilia in mano alla mafia. La trasformazione che fa più paura ai potenti è quella della cultura, di cui il ragazzo Sisinno si fa portatore nel tentativo riuscito di uscire dalla sua condizione di apparente minorato; con lo studio del latino e della letteratura classica in cui si rivelerà un portento – con grande orrore del padre che lo vorrebbe  ignorante e obbediente-   assume un riscatto emblematico ,al punto di diventare il consulente cinico e spietato di Giacobbe: la sua intelligenza e la sua cultura lo spingono ad una idea determinante: l’introduzione della patente di voto per “scremare una buona fetta dell’elettorato tradizionale”; anche questa è una trasformazione della tecnica della democrazia e dunque delle TESTE pensanti: chi ignora alcune nozioni delle funzioni dello stato verrà escluso dal voto in modo da trasformare la realtà e approvare un cinico riavvicinamento tra Chiesa e cittadini, per neutralizzare fenomeni di corruzione come il voto di scambio! E questo, nei piani quasi riusciti di quello che sarà il nuovo presidente del consiglio, porterebbe al recupero e al ritorno di elementi che ormai sembravano irrimediabilmente perduti: la lentezza, la poesia e forse la felicità. Una sorta di “omeopatia” al potere che fa quasi il paio col cinismo con cui Quinto Tullio cicerone suggeriva nel “Commentariolum Petitionis” i trucchi per condurre una efficace campagna elettorale e vincere le elezioni. Insomma ,come si diceva all’inizio: per un verso o per l’altro, da questa spirale reale non se ne esce. Sembra quasi obbligato dunque “fottersi” anche per una rivoluzione utopica che ancora più cinicamente, se possibile, conclude per due volte la sua parabola con le due parti , quella “giusta” e quella “sbagliata”, se vogliamo semplificare , che si autostimolano ciascuna al proprio interno a portare avanti il compimento dei piani o della vendetta citando in maniera inquietante il Primo levi di “Se non ora quando?”

 

L.M.

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