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angolo

“CANZONI ALL’’ANGOLO” di Luigi Mariano (“Esordisco” – 2016)

Questione di prospettive: potrebbe essere questo il senso (se non forse il sottotitolo) dell’operazione intrapresa dal cantautore Luigi Mariano con questa sua seconda opera discografica intitolata “CANZONI ALL’ANGOLO” , a distanza di 7 anni dal suo disco d’esordio “Asincrono”. Diversi punti di vista sul mondo e sulle sue essenziali fenomenologie e manifestazioni tracciate in 11 brani firmati quasi tutti dall’autore. Tale percorso ci rivela un uomo in continua e costante ricerca di se stesso e della propria dimensione continuamente giocata tra il bilico della precarietà esistenziale e la necessità di trovare una consacrazione poetica nel senso letterale della propria concezione del rapporto arte –vita. Semplicità e tradizione si fondono però in maniera quasi alchemica con soluzioni forse non sempre sorprendenti ma tutt’altro che scontate soprattutto dal punto di vista dei testi, che spesso propongono un punto di partenza incuriosente per poi approdare a una “soluzione finale” di maturo realismo senza per questo arrivare al tradimento delle proprie posizioni.

L’attacco è eloquente: Luigi afferma senza mezzi termini , di avere in corpo “MILLE BOMBE ATOMICHE”: su un ritmo di medium – rock l’autore esprime, con rabbia trattenuta e desiderio di conoscenza infinita perennemente dichiarato (si ricordino le sue parole nel disco precedente “Questo tempo che ho non mi basterà , troppa sete di conoscere…”),  il suo disagio di fronte all’apparente caos del mondo che però viene subito racchiuso in una domanda ossessiva che torna a mò di ritornello :“Dov’è l’errore nel tuo passato?” come ci fosse un continuo “ping – pong” fra il personale e il collettivo che è poi la dicotomia eterna dell’uomo di fronte all’universo che per spiegarselo, tende a cercarne possibili leggi chiarificatrici e ordinatrici. E infatti il Nostro arriva un giorno a “disinnescare” le proprie bombe, perché la sua “tragedia” sarebbe proprio farle esplodere per ripudiare “ciò che sei”: Quella rabbia tanto motrice quanto indispensabile si risolve in due possibili strade: quella del filosofo – uomo comune che si rende conto che “qualsiasi cosa FA BENE E FA MALE” e quella dello scienziato che quelle leggi del cosmo le cerca e passa la vita a tentare di definirle, ma da un punto di vista molto particolare: “COME ORBITE CHE CAMBIANO” è infatti  una romantica descrizione dello scienziato Stephen Hawking, recentemente celebrato dal film “LA teoria del tutto” che, affetto da sla, descrive il suo punto di vista sull’universo, nel tentativo di spiegarlo nonostante la sua posizione di forzata immobilità fisica; e si direbbe che , in maniera quasi cristologica , accolli  su di sé e sul suo corpo che lo intrappola, la responsabilità di quel “fuoco” universale che maledì la terra e l’umanità riempiendosi di comete che non tornano più”; ciò nonostante, l’uomo resta consapevole che un’equazione che possa spiegare la “teoria del tutto” non possa spiegare quella basilare legge universale che è l’amore.

L’anima più grottesca e ironica (a dire il vero in questo disco un po’ messa da parte e meno presente rispetto al precedente), emerge in due quadretti situazionistici :“SCAMBIO DI PERSONA” e “L’OTTIMISTA TRISTE”; il primo tratteggia su un ironico “rock blues” le sfortune di un povero avventore accusato di un crimine (poi scagionato) a causa delle sue idee di uomo, che poi finisce in politica e contro la sua aspettativa  si ritrova eletto presidente; fuggendo anche da tale carica, torna a casa e trova sua moglie sul parquet sorpresa in amplesso con il commissario: una divertente metafora forse anche per celare la crisi di identità cui è costretto un uomo che cerca di essere solamente se stesso ma scopre che a stento ciò è possibile nella società mediatica che fa smarrire la propria autenticità;   il secondo invece sembra riscattare la posizione descritta nel precedente: con un po’ di ottimismo , corroborato anche da “sporcature” dialettali , si può comunque trovare il riscatto della semplicità , dell’uomo senza particolari pretese cui basta poco per tornare a sorridere ad esempio una birra, gli amici al bar…

Del resto è necessario , si direbbe, trovare delle vie d’uscita ma soprattutto di risoluzione pratica se troppe cose nella vita restano irrisolte o incompiute; attraverso la metafore di un concerto di cui si fanno le prove tecniche ma poi per varie ragioni , non avrà mai inizio, “ALLA FINE DEL CHECK” si rivelano le delusioni delle più grandi aspettative della vita: scoperte che non si fanno, baci che non arrivano…ed è efficace la figura dell’artista che non può salire sul palco perché il pubblico, per varie ragioni non arriva, o perché piove o perché “non è stata fatta pubblicità”, e sono cose che chi è nel campo conosce bene, ahimè…

 

Il “maturo realismo” cui si accennava in apertura è dettato comunque dalla posizione insieme privilegiata e di inferiorità apparente che relega l’artista “all’angolo”, come dice il titolo dell’album e della canzone omonima. E’ da questa prospettiva , comprensiva di significati diversi e “cosmici”,  che emergono le visuali variopinte e allo stesso tempo complete del Nostro: l’angolo è quello del cantautore o del poeta relegato nella nicchia, di cui spesso ci si stufa, salvo poi rendersi conto che la celebrità è forse un rimedio peggiore del male da cui si sospetta sia meglio rifuggire per mantenere la propria autenticità; è l’angolo del ring dove si sta come dei pugili suonati, da cui però si vedono meglio le cose in una visuale “a ventaglio” ; del resto Luigi si rende conto, come dice in “QUELLO CHE NON SERVE PIU’”, che “mettere tutta la vita in un secchiello” equivale a “non vivere” ; meglio mantenere un bilico scomodo che permetta di restare all’angolo e quando lo si crede , mettersi in cammino  e forse non tornare più, come si dice alla fine del disco nel brano di chiusura “L’ORA DI ANDAR VIA”.

 

Musicalmente prevale, come si diceva, l’atmosfera rock cantautorale curata ,tra gli altri, dalla sapiente supervisione di Alberto Lombardi , già presente nel disco precedente, che arrangia anche un arricchente quartetto d’archi in un paio di brani; Si alternano dunque in maniera sapiente e dosata auree “forti” ad alcune più dolci soffuse e delicate che ben sia amalgamano, al netto di qualche soluzione strumentale di gusto un po’ discutibile (ad esempio l’introduzione di sapore un po’ “lisciaiolo” affidata al sax soprano in “Quello che non serve più”). Le presenze di “guest star” come Simone Cristicchi, Mino De Santis e Neri Marcorè sono certamente un valore aggiunto ma non riteniamo che Luigi abbia bisogno di “supporti” di sorta per rimarcare il suo valore artistico che con questa seconda prova cantautorale conferma il suo spessore. Il disco , che tra l’altro omaggia uno dei modelli di riferimento dell’artista con una cover di Bruce Springsteen “IL FANTASMA DI TOM JOAD”, consacra questo artista nel novero della tradizione cantautorale italiana secondo modelli classici che ci regalano piccoli gioielli addentrandoci nei quali troviamo perle di saggezza e di poesia che confermano una maturità artistica ormai acquisita. Quello che lascia un po’ perplessi è semmai , conoscendo alcuni modelli di formazione del nostro, la carenza di spirito dinamico e duttile in senso della “teatralità” della canzone che stavolta , rispetto al disco precedente, ha ceduto un po’ il passo a ritmi e dinamiche più intimiste privandoci così del lato più “agguerrito” e ironico che in un Luigi Mariano potrebbe fare la differenza e accattivare meglio l’ascoltatore. Un cd comunque godibile ,che si ascolta volentieri dall’inizio alla fine, sia pure con un alone interrogativo per ciò che l’opera sarebbe potuta forse risultare con un pizzico di “audacia” in più.

(L.M.)

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“TORINGRAD” di Darien Levani (ed. Spartaco, 2016)

“ATTIMO, FERMATI , CHE SEI BELLO!” esclama il Faust di Goethe  per sottolineare la rarità dei momenti felici che arrivano e passano rapidamente nella vita. Chissà se Darien Levani, autore di origine albanese ma da tempo vivente in Italia, aveva in mente proprio questa immagine nello scrivere l’introduzione del suo “TORINGRAD”, romanzo ambientato tra l’Italia e l’Albania.  “Come fai a riconoscere la felicità mentre la stai vivendo e sussurrare a te stesso “Ora fermati sii felice”?”. Così esordisce la narrazione , ma nessuno si illuda di intraprendere un percorso di sapore “new age” o di facili soluzioni delle proprie ricerche personali. Tutt’altro è il mondo che ci si prospetta in questo viaggio violento e inquietante in mondi “sotterranei” ma non troppo. “Toringrad” è il curioso nome che Drini, , ex studente universitario, decide di conferire al suo bar che apre nel capoluogo piemontese, che si rivelerà anche un “centro” di incontri e affari loschi in cui si ritrova coinvolto suo malgrado dopo che il cognato, Petrit, viene arrestato: dovrà dunque essere lo stesso Drini a intervenire nel complicato e rischiosissimo giro di “consegne” di droga. Da qua si snocciola un mondo terrificante pur nella sua relativa prevedibilità, dove incontriamo prostitute, slot machines, ex – poliziotti che fanno la cresta sul guadagno delle donne di strada, ma soprattutto assistiamo alla “formazione suo malgrado” di quello che forse sarebbe voluto essere un “ragazzo tranquillo” . Non c’è traccia qui di facili o affannosi tentativi di distruzione di luoghi comuni secondo cui certe “civiltà” sono portate a un certo tipo di attività criminali piuttosto che ad altre; non è questo il tema trattato, anche perché caso mai tali convinzioni si auto distruggono o si autoalimentano a seconda di come si voglia leggere la vicenda che peraltro coinvolge anche attori di varie nazionalità (a cominciare dagli italiani). E oltretutto sin dalle prime righe del testo l’autore sembra “metterci in guardia” in merito quando accenna all’aiuto che gli Albanesi diedero ad alcuni italiani sfuggiti alla barbarie nazista durante la seconda guerra mondiale. E forse non occorre aggiungere altro per chi voglia intendere.

Ma quello che può per noi essere più interessante è notare la lucidità fredda e spietata che non trascura una dolcezza fra le righe, di questo io narrante: rigido e fermo nel descrivere la matematica , potremmo dire, del mondo con cui ci si trova costretti a fare i conti. Prima di tutto perché essenzialmente di soldi si parla, (e sui calcoli non si può discutere; nel caso, le armi sono sempre dietro l’angolo), ma poi anche perché tutta questa realtà costruita su ricatti, odio, prevaricazioni come ragion d’essere, non ammette alcun tipo di sgarro; o peggio, sembra non aspettare altro per potersi vendicare su chi quegli sgarri te li fa per “arrivare prima di te” nel senso lato del termine. Si potrebbe dire che è  un ‘umanità che ha bisogno del prossimo per poterlo fottere.  E allora bisogna scavare nel tufo della narrazione per trovare i lampi di umanità e di intelligenza sensibile che distinguono Drini dal mondo dove è costretto a sopravvivere più che a vivere. Alcune osservazioni come “C’è gente che non riesce a capire che controllare il territorio non serve più a niente” mettono in luce la lapalissiana constatazione che anche nel mondo parallelo dell’illegalità estrema che crede di sempre di farla franca, “la realtà è più avanti”. Come pure il fatto che, quando Drini rifiuta la percentuale sulla droga da smerciare al bar Toringrad , “Non si capacitavano di come uno potesse rinunciare a tutti quei soldi”: perché si da per scontato che il denaro è davvero il Dio che piace a tutti. Del resto Drini sembra quasi essere uno di quei “riservati dalla parte giusta” che si trovano ad essere coinvolti nel mondo dei “riservati dalla parte sbagliata” , ovvero di chi agisce nel mondo dei traffici da svolgere nell’ombra apparendo al pubblico con – magari anche rispettabili- ruoli e attività di copertura. A tal proposito si fa cenno spesso al volersi tenere al riparo da “occhiate indiscrete”, come fanno i giocatori per pudore del loro vizio: e Drini coglie questa “impurità” con occhio empatico, come li capisse, come volesse anch’egli continuare a passare inosservato ma in un senso sano, non perverso come il gioco troppo grande cui è sottoposto.

Anche i “sensi doppiamente acuti” di cui Drini si mostra dotato, fosse per lui servirebbero a godere di odori , suoni, colori del semplice mondo a lui  circostante e che invece gli servono per tenere altissima la guardia in ogni “microazione”, specialmente quando si tratta di consegne di “roba”. Al punto di rivelare un acume quasi degno di un esperto teatrante , quando si afferma ad esempio che “fare niente è facile, fingere di non fare niente è difficile”, per cui Drini può capire le intenzioni per quanto ben celate di qualsiasi individuo , specialmente di quelli con cui deve per forza di cose avere a che fare.

Sensibilità sprecata, quella di Drini? A tratti verrebbe quasi da pensarlo, intriso com’è di molteplici sensazioni che partoriscono florilegi di spunti:  a cominciare ricordi della sua terra di origine che, nel confronto con la società comunista tanto auspicata dai genitori, gli fa quasi rilevare che ogni epoca ha  il suo modo di far soffrire e star male una civiltà , la differenza forse  sta solo nel fatto che “allora si stava male tutti insieme” , oggi invece si muore lentamente , ma da soli . Nell’incontro con una prostituta Drini si sente a volte di troppo, come fosse consapevole di non essere il tipo di cliente che la “professionista” aspetta. E nella sua immaginazione fa riferimento a un frammento di arte, una canzone di Piero Ciampi (“40 soldati 40 sorelle”) fugacemente evocata per sublimare il ruolo di figure umili e fuori dal tempo che insieme si uniscono per fuggire e cercare di creare un mondo nuovo, come potrebbero essere lui e la ragazza se potessero utopisticamente isolarsi dalla cruda loro realtà. Del resto anche nella fase finale del libro Drini cerca alla radio vecchie canzoni “come quelle che non se ne fanno più”, arrivando al paradosso di affermare “Non sono triste, vorrei esserlo”. Ed è curioso che sensazioni di un uomo semplice e sensibile (come il protagonista –a questo punto – non può più permettersi di esserlo nella realtà “pratica”) vengano quasi rimpiante e soprattutto anelate attraverso le canzoni, la forma artistica forse più snobbata e bistrattata ma che proprio nei momenti più duri o autentici, come già quello sopra citato, restituisce la nostra spontaneità “proibita” dal mondo  circostante. E quando , a proposito di autenticità , si fa riferimento alle “radici” , è proprio per domandarsi se si è in un certo modo perché si proviene da un’area geografica : Ancora nel momento culminante della fase del crimine, si ha tempo per ricordarsi che il fatto di farsi sempre tante domande , anche in particolari apparentemente minori (come , ricorda Drini, da quale lato farsi il segno della croce ) gli proviene dalla cultura dei padri e dei nonni. Il Drini di oggi come figurerebbe di fronte a questo modo di intendere i particolari della vita?

Drini si può salvare con gli incontri puri e semplici perché, come dice lui , semplicemente gli uomini sono destinati ad incontrarsi. E se è vero che “la vita è l’arte dell’incontro”; ecco che anche un semplice incontro con una prostituta- che lo “salva” con la sua presenza senza chiedere in cambio “né soldi né promesse” – “assolve” un’ umanità che ha ben poche speranza di salvezza pratica se non continuando, come si diceva a fare e farsi domande. E la domanda su cui il romanzo si chiude , fatta dalla prostituta a Drini è tanto semplice quanto spiazzante , teatrale e totalizzante: “Chi sei tu?”.

L.M.

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“NON HO TEMPO DI PRENDERE A SCHIAFFI TUTTI” di Francesco Pellicini ( CD Latlantide/Edel, 2016)

 

“Sono un artista, lasciatemi stare!”.  Chissà , forse basterebbe questa frase a suggello per quelli come Francesco Pellicini (“Checco” per gli amici) e anche per quelli come lui, che vivono la loro poetica, ovvero la concezione del rapporto “arte/vita” come una necessità viscerale e dove i due poli sono quasi inscindibili. La frase è inclusa nel brano di chiusura di questo album “Da Leggiuno in Nazionale”. E in effetti basta già dare un’occhiata ai titoli dei 10 brani di questa sua seconda opera cantautorale per farsi una idea dello spirito di questo artista , scampato (o scappato?) al destino professionale di una famiglia di storici avvocati per dedicarsi alla sua vera vocazione, ovvero artista di teatro – canzone e operatore culturale (è organizzatore di diverse rassegne di teatro cabaret e musica).

A cominciare dalla canzone che da il titolo all’album: comunemente allo spirito che prende un po’ tutti coloro che prediligono la canzone di satira e denuncia rispetto a quella di evasione pura, il nostro Checco non manca di sottolineare gli aspetti più biechi  e contraddittori del nostro tempo, dai finti ribelli politicanti alle proteste sociali realizzate da chi invece trova in esse il rifugio per le proprie manchevolezze di impegno e di spirito di iniziativa (“Io stipendio lo dovete guadagnare”); fino ad arrivare alle tragedie del nostro tempo che invece di suscitare preoccupazione e solidarietà diventano pretesto per far riemergere alcune meschinità congenite di aberranti animi (“oggi ci mancava lo scafista a rievocare l’animo nazista”). Francesco oppone un rifiuto , una protesta contro la protesta, si potrebbe dire: Perché fare il gioco di chi ci vorrebbe sempre incazzati e irritati contro “quello che non va”? Abbiamo il diritto di essere sereni e felici e , forse, con le modalità che ci sono proprie, a contribuire alla miglioria della serenità nostra e del mondo , investendo il nostro tempo in attività costruttive e anche piacevoli, come fa lo stesso artista e organizzatore Checco: i maleducati e i cattivi  restino a rodersi il loro animo frustrato , noi proseguiamo per la nostra strada. Su un allegro ritmo di reggae –swing e un coretto femminile in perfetta coerenza di stile che scandisce un beffardo “I don’t waste my time”- (“non spreco il mio tempo”), si delinea chiaramente la freschezza dell’album che sfodera altre perle, tra il serio e il faceto. “Di scena in cena “ ,brano di apertura, sottolinea su un cullante swing la vita dell’artista che vede la sua vita come sospesa tra i due poli del massimo piacere realizzativo della sua attività: il momento del pasto come condivisione goliardica ed epicurea anche con altri colleghi o semplicemente da soli assorti nei pensieri contemplativi, e poi il momento della performance , condita dal “sorriso del comico” che in un certo spirito di duttilità artistica risulta quasi imprescindibile. Perché la vita è “condannata di poesia” all’interno di una partita che, per l’appunto, si gioca spesso di sera, quando noi artisti spesso sfidiamo il nostro pubblico alla partita con noi e i nostri argomenti. 

Ovviamente non si può far finta di non vivere nel mondo in cui viviamo ,per cui  una sana dose di realismo impone di aprire gli occhi e capire che i grandi miti del passato sono morti e sepolti ; e allora l’invito “Ti devi uniformare” non è da prendere come una resa o una rassegnazione, ma piuttosto ad assaporare le piccole belle cose che attorno a noi girano da cui si può ripartire: il mare,(non quello del mitico Ulisse , ma quello del caldo afoso di agosto dove si può fare un sano bagno), le stelle, la natura… E quando proprio non si riesce a fare a meno di constatare che la realtà è fatta anche di dura quotidianità ,soprattutto quella lavorativa, perché non riderci su ,soprattutto con situazioni a noi geograficamente vicine ? Checco , dal suo lago di confine , scherza – ma non troppo – sulle dure condizioni dei lavoratori frontalieri che dall’Italia ogni giorno si recano nella vicina Svizzera per strappare una sorte – e uno stipendio – migliore ; la condizione abitudinaria non è però delle migliori e allora un hard rock di lamento manifesta la tensione e lo scontento del “Prode Frontaliere” costretto a una routine fatta oggi anche di frustrazione per esser mal visti dagli indigeni, come noi vediamo male di qua dal confine, gli extra- comunitari che ,secondo i comodi luoghi comuni  “vengono a rubarci il lavoro”.

Momenti di struggente tenerezza sono regalati invece in “La forza che mi dai” , omaggio al padre da pochi anni scomparso; i ricordi sono fusi con la nostalgia ma anche con la forza che gli stessi danno per andare avanti nei momenti difficili; del resto tutto il discorso nascosto fra le righe del disco può essere visto come una sorta di parallelo tra la realtà e il mondo generale da cui non possiamo tirarci fuori del tutto e la “continuità familiare” che da conforto e forza per proseguire con la certezza di avere un rifugio e un conforto ma anche un senso, che c’è solo se i componenti più cari sono con noi: Qui l’omaggio esplicito al padre è implicitamente corroborato dalle fotografie dei figli che compaiono sia sulla copertina che all’interno dell’album: tra le righe dunque troviamo la stretta necessità di “far parte di chi è venuto e chi verrà; e questa è l’eternità”, come diceva Duilio Del prete, altro storico attore –cantautore.

E a testimonianza dell’importanza degli affetti artistico – amicali ecco “Vorrei prenderti sul tram”, inserita soprattutto come un omaggio all’autore del pezzo  Davide Rota, artista prematuramente scomparso e grande amico di Checco ; al di là dello spessore grottesco del pezzo, è importante il pensiero del ricordo di un valido autore che forse non ha avuto sempre la considerazione che avrebbe meritato.

Altro elemento importante nella poetica “pelliciniana”, come si accennava è la geografia; e dunque ecco un sentito omaggio alla sua Luino e al lago in “un’estate sul lago maggiore”, una fotografia semplice e rilassata di una giornata vissuta  nei luoghi prediletti con una strizzatina d’occhio tra il patetico e l’ironico a qualche amorazzo di gioventù che qui ha visto la luce; e ancora i luoghi della memoria tornano nella conclusiva e già citata “Da Leggiuno in  Nazionale”. E’ la rielaborazione di un brano già edito “Il dribblatore”, dove Checco rievoca le passioni sportive giovanili descrivendosi come un “dribblatore dalla finta eccezionale”, sia nello sport che nella vita, ma qui con un finale nuovo che si trasforma in un omaggio a un grande del calcio italiano, ovvero Gigi riva, che qui ha avuto i natali e cui è dedicato lo spettacolo che porta lo stesso titolo del brano.

Gli arrangiamenti a cura dei “Delfini d’acqua dolce” risultano efficaci e mai invadenti o comprensivi di virtuosismi gratuiti, nel pieno rispetto di una tradizione folk – cantautorale che però qui non risulta banale o scontata ma gradevole, dosata dei giusti arrangiamenti richiesti dallo spirito dei brani senza stancare l’ascolto, anche magari in brani di minore efficacia o rilevanza come “Rock Muriatico” o “Ho una marcia in più”.  E indubbiamente Pellicini mostra un salto di qualità rispetto al precedente album “Canta chi conta non conta chi canta…”, forte senz’altro anche della scelta di collaboratori assai più validi ,efficienti e interessanti artisticamente e umanamente.

 

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“QUANDO LE CHITARRE FACEVANO L’AMORE” di Lorenzo Mazzoni (ed.Spartaco,2015)

Ricordate la descrizione che Jorge Luis Borges dava dell’ “Aleph”? “Immaginiamo in una biblioteca orientale un’illustrazione di molti secoli fa. Forse è araba e ci dicono che vi sono raffigurati tutti i racconti delle Mille e una notte; forse è cinese e sappiamo che illustra un romanzo con centinaia o migliaia di personaggi. Nel tumulto delle sue forme, qualcuna (…) richiama la nostra attenzione, poi da questa passiamo ad altre. Declina il giorno, si attenua la luce, e man mano che penetriamo nell’incisione capiamo che non c’è cosa sulla terra che non ci sia anche lì. Ciò che fu, ciò che è e ciò che sarà, la storia del passato e quella del futuro, le cose che ho avuto e quelle che avrò, tutto questo ci aspetta in qualche angolo di quel tranquillo labirinto”… Bene, a volte capita di imbattersi in opere artistiche (anche letterarie , come in questo caso) in cui si ha la sensazione di essere inondati da questa sensazione di cosmicità e di “tutto” nell’uno. Non crediamo di esagerare se riteniamo che “Quando le chitarre facevano l’amore” di Lorenzo Mazzoni sia veramente ad un millimetro dal rappresentare questa tipologia di universo. Si parte con la convinzione – a leggere il titolo – di trovarsi nell’atmosfera “Peace, love & revolution” degli anni ‘ 60 e subito, all’immergersi nella lettura, ci si accorge di “navigare” in un oceano molto più complesso; in una trama che dipana in sé un’infinità di strade che aprono il varco ad altri sentieri, quasi sempre impervi. Si parte dal drammatico epilogo del regime nazista in Germania nel 1945 , allorquando scompare uno dei più fidi collaboratori di Hitler, ovvero Martin Bormann, durante l’avanzata delle truppe sovietiche. Una ventina d’anni più tardi inizia una “caccia all’uomo” ad ogni costo con qualsiasi mezzo, apparentemente per uno spirito di giustizia. Ma si stenta a raccapezzarsi nei meandri delle logiche e delle motivazioni che ogni “attore” coinvolto in tale impresa mostra e cela al tempo stesso. In uno sfondo geografico che si estende dall’Europa all’America del nord e del Centro fino all’Asia , allora al centro dell’attenzione per la guerra in Vietnam  e per i movimenti antimilitaristi e di manifestazioni all’insegna di pace, musica e droga, troviamo letteralmente di tutto: Cacciatori di nazisti di più nazionalità e ruoli, una organizzatrice di eventi di copertura che si occupa di reclutare tali “cacciatori” con espedienti poco leali, un presidente di stato che si “moltiplica” fittiziamente tramite diversi suoi “sosia” tra cui un attore cieco che  se la cava niente male nel girare il mondo nonostante la sua menomazione fisica, e altro ancora. Nel frattempo quello che si ritiene essere il motore di tutta la vicenda , sembra essere lo stesso che, in qualche parte del mondo e sotto un’altra identità costruita fittiziamente, finanzia , cercando una sorta di “autoredenzione” dal proprio passato, una rock band molto nota al pubblico americano e  che propugna , come molte altre , il trionfo dell’amore e la fine delle ostilità, tra una limonata all’lsd e l’altra. Ma è davvero tutto così lineare come sembra? O avremo ulteriori sorprese?

Il genio di Mazzoni riesce a fondere tutte gli elementi esplosivi della vicenda quanto e forse più del cocktail micidiale a base di limone e lsd che il “manager” della band Martin Bormann presunto ex –nazista sotto le mentite spoglie di Martin Weiseberg prepara regolarmente ai suoi “ragazzi” della band. Quando la narrazione incalza sotto l’incedere delle sequenze , a volte alcune  notazioni climatiche contribuiscono sapientemente a farci entrare nell’atmosfera piena del paese e dell’ambiente dove ogni volta si sposta la virtuale macchina da presa dell’autore. La dimessa rassegnazione controbilanciata da uno stanco quanto ineluttabile senso di dovere e fuga è quella che conduce per mano Luigi Portaleone, l’italiano cacciatore di nazisti fumatore accanito che dietro ad un apparente senso di dignità professionale viene spesso logorato dai “non importa” che spesso ritornano durante la sua vicenda; come se l’unica forza motrice fosse quella dell’agire senza chiedere spiegazioni: uno dei più grandi marchi di infamia che l’umanità ha subito (quello dei crimini nazisti) non ha bisogno di ulteriori motivazioni; e Luigi è l’antitesi di qualsiasi senso di poesia, senso artistico , realtà da interpretare; proprio egli che non ha la minima cultura musicale, si vede costretto a erudirsi alla svelta sulla musica rock più in voga del momento e a vestire i panni di un falso giornalista musicale per “abbordare” meglio il suo obiettivo che prevede di incontrare in presenza della rock band, per fargli una fittizia intervista come “tranello” per acciuffarlo.

Ma ad un occhio più  “panoramico” risulta evidente come in questo “calderone” caldo e colorito non si salvi nessuno se non le chitarre, per l’appunto, ovvero la musica, l’innocente musica che qui però potrebbe quasi essere vista con un retroscena di colpevolezza involontaria. L’ idea di far parlare le chitarre in prima persona come fossero esseri viventi evidenzia la passività più che l’attività del ruolo che la musica dovrebbe avere di unione, risoluzione, rappacificazione;  ma in realtà qui non si intravede nelle parole delle “protagoniste loro malgrado”, un senso di vittoria ma piuttosto di osservazione passiva e impotente, come quando – ad esempio – constatano di essere “mal suonate” dai loro esecutori spesso strafatti di alcol e sostanze stupefacenti. Sin dalle prime battute del testo ,a partire dalla figura della tremenda organizzatrice di eventi di copertura Lolicia Smith, in realtà una spia priva di qualsiasi scrupolo, si vede come ogni evento nasconda facilmente il suo contrario, la cultura e la solidarietà non siano altro che due parole che servono per finanziare efferate azioni di spionaggio e ulteriori azioni di guerra come sempre con fini economici; e si nota come ognuno dei personaggi agisca sempre anche un po’ per fini di riscatto personale, tra noir e arte varia, tra politica e geografia. Una matassa enorme e ,come si diceva, cosmica, in cui la scelta dell’ambientazione storica tra uno dei momenti più tragici della storia dell’umanità e uno di quelli più rivoluzionari congloba in una fusione perfetta la ricerca disperata di una salvezza che non arriva se non nella fuga o nella morte al di fuori dei riflettori della storia di quasi tutti i protagonisti; Una resa dichiarata è poi la lettera che Martin Weisberg (il “falso” Martin Bormann) scrive all’amico generale vietnamita rivelando, al termine del romanzo, la vera vicenda e la vera sua identità.

Dopo un siffatto percorso è ovvio che il lettore non può sentirsi tranquillizzato e sollevato ma ne esce con la constatazione che quasi sempre  ben guardare, “Niente è come sembra” e la diffidenza verso la politica e  il genere umano in generale non sono frutto di qualunquismo ma naturale conseguenza di chi voglia davvero affrontare con vero impegno e senza alcuna pietà le logiche e le dinamiche dell’imprevedibilità dell’essere umano allorquando questo dia libero sfogo al suo intero ego malato e sfrenato. La storia, dunque, vista come conseguenza dell’essere dove anche gli spunti positivi che qui possono essere quelli culturali e benefici paiono avere sempre un risvolto negativo se portati alle loro conseguenze estreme. E dunque ci pare quantomeno ragionevole richiamare alla mente  l’eco inquietante delle parole di Brunella Gasperini, giornalista e scrittrice italiana oggi pressoché dimenticata, ma le cui parole scritte alla vigilia della morte, alla fine degli anni ‘ 70, suonano oggi sinistre quanto profetiche e tenebrose: “Non crediamo più a niente, neanche – si fa per dire – alla verità.”

 

L. M.

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“VISIOGRAFIKA” – Progetto artistico di Katia Mandelli Ghidini

Cantava Luigi Tenco: “C’è chi dice che l’arte non ha rapporti con l’uomo comune per cui l’artista vero non può usare un linguaggio capito da tutti; anzi: meno comune sarà il linguaggio usato, tanto più verrà a galla la personalità”. Può questa teoria applicarsi all’artista svizzera Katia Mandelli Ghidini? Difficile dirlo. L’astrattismo di Katia non “tranquillizza” per il fatto di essere fluttuante, instabile, continuamente sfuggente a una definizione univoca. Se si parte dalle opere catalogate “mozartianamente” con la K dell’iniziale del nome e un numero, si ha la sensazione di una dimensione onirica che sembra  si tenta di dissipare solo con la  speranza di una visuale della natura “dal basso”, forse un cielo che rimanda a qualcosa di rassicurante nella psicologica varietà di colori in cui ognuno può ritrovare quello che corrisponde al suo io profondo; ma ecco che fluttuazioni più calde e affascinanti appaiono nelle opere di fine-art e del plexi; si spazia dal gesto risoluto che trova in se’ e nella sua dinamica la sua ragion d’essere, alla calma contemplazione di un paesaggio più naturalistico, fino ad arrivare alla turbolenta e quasi “jazzistica” visione di una moderna città con le sue sinestetiche sovrapposizioni di architetture e luci. Ma Katia non smette di sorprenderci dimostrando di saper fondere il suo astrattismo con un occhio vagamente vintage al passato di sapore quasi “beatnik” quando fonde la cultura delle maschere carnevalesche con le tinte vivaci dei colori risoluti, fusi in un’atmosfera un po’ anni ’70 e dove la glacialità delle maschere senza occhi aggiunge delle tinte leggermente violente  che rimandano a quel periodo. Uno sperimentalismo diretto e gioioso che non per questo viene meno a una coerenza artistica di fondo, capace , lo si può credere, di  legittimare le nostre aspettative di qualcosa che ancora deve emergere dal cuore di questa eclettica artista.(L.M.)

PER APPROFONDIRE  : www.visiografika.com

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“NON E’ COLPA DI PANDORA” di Giovanna Rotondo (ed. La vita felice,2014)

Il sentimento di irritazione e impazienza può essere scatenato da varie ragioni. Non è raro però che una causa scatenante possa essere il fatto di ritrovare negli altri alcune caratteristiche o atteggiamenti che d’istinto respingiamo ma che in certo qual modo sono presenti a livello maggiore o minore , a livello più o meno inconscio, anche in noi stessi. E’ questo il sospetto che emerge limitandoci ad “ascoltare” le sensazioni da noi stessi provate leggendo “Non è colpa di Pandora”, opera della poliedrica Giovanna Rotondo, sul tema delle dipendenze e , come recita  il sottotitolo, delle loro subdole “zone d’ombra”, che logorano persone di estrazione e ruolo sociale fra i più disparati.

 

L’opera è sostanzialmente un resoconto di alcuni passaggi di terapie di gruppo indicate con le loro inquietanti sigle tecniche come la“Gimof” (che indica il percorso di terapia di gruppo per pazienti in trattamento e i loro familiari). Emergono a tratti sempre più definiti le personalità dei diretti interessati coi loro nomi di battesimo (non si sa se veri o immaginari); ciò che salta all’occhio è lo stile distaccato dell’autrice che si limita a descrivere i duri momenti di tale percorso terapeutico pur mantenendo una palese empatia con le situazioni descritte. Alcol, droga, gioco d’azzardo, sono gli effetti risaputi di problematiche mai risolte o mai volute affrontare. I protagonisti loro malgrado di questa “avventura” si giostrano in quella che potremmo quasi chiamare , parafrasando Hanna Harendt, una sorta di “Banalità del male” dove ognuno sembra preda di qualcuno o qualcosa d’altro; ogni vocabolo, gesto ,sguardo, può venire soppesato e interpretato in molteplici modi e quando di mezzo c’è la psicologia o la psicanalisi ci sono sempre “trappole” in agguato. Qualche volta si cerca di “stemperare” e sdrammatizzare la situazione  con battute di improbabile efficacia (“Da alcolista ad alcologo!”) che però non la spuntano sulle frasi tanto scontate quanto imprescindibili (“E’ un processo lento e faticoso…” “Per aiutare gli altri bisogna prima aiutare se stessi”…e così via). Tra genitori e figli, tra mogli e mariti e amici…la tentazione di scaricare la colpa su altro o altri è sempre forte. Ma la chiave di tutto è forse proprio quella che suggerisce il titolo “Non è colpa di Pandora”; è piuttosto colpa nostra, di ognuno di noi, con le sue “beghe” irrisolte che poi si ripercuotono su chi ci vuole bene veramente e ci è più vicino e non sa come aiutarci. E dunque la persistenza distaccata quasi da referto medico con cui l’autrice si limita a registrare i percorsi dei partecipanti scatena proprio l’effetto forse voluto: pesantezza, irritazione, voglia di dire “MA se davvero lo vuoi ce la puoi fare!”. ma anche consapevolezza ineludibile che “tutto quello che accade fa parte della vita” per dirla con Giorgio Gaber. E lo stile dello scritto è dunque la sua pecca e la sua arma vincente allo stesso tempo. Vincere , o meglio in questo caso “vincersi” si può . Il confronto terapeutico può aiutare ma non basta. Anche il “senso di appartenenza” che la paziente Marianna dice di aver riscoperto alla fine della terapia, nella lettera che chiude il libro, in realtà non tranquillizza il lettore che arrivato alla fine della lettura,  capisce che “domani è un altro giorno” e una ricaduta (peraltro vista nel corso del testo come una opportunità e non un limite) può essere sempre in agguato. Sta alla maturità di ognuno di noi tenere alta la testa e navigare a vista. Ognuno decida, almeno, chi e cosa  vuole essere.

(L.M.)

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“QUANDO PIOVE HO VISTO LE RANE” di Azzurra D’Agostino (“Valigie Rosse”,2015)

OSSERVARE.E non limitarsi a “guardare”. Forse è questo che distingue il poeta o l’artista in genere. Per andare oltre, al di là delle semplici descrizioni di un ambiente o di uno stato d’animo. Il titolo di questa breve raccolta di poesie di Azzurra d’Agostino è indicativo. La pioggia evoca dunque una visione realistica ma non scontata e che “rimanda” a elementi simbolici . Gli occhi di un bambino sono il “filtro” ideale per fare sgorgare dal cuore prima che dalla mente curiosi giochi pittoreschi con protagonisti animali, paesaggi  o anche esseri umani , la poetessa in primis.

L’autrice ci porta nel suo mondo all’insegna della decostruzione, rinnegando le leggi della logica e della matematica ma senza accusare o rinnegare il mondo che pure da esse è in qualche modo governato, ammettendo “In matematica non sono brava”. Quindi dobbiamo rinunciare a occhi “logici” per dare spazio a quelli di cui poco ci è dato strutturalmente sapere, come quelli degli animali.  Si potrebbe dire che Azzurra “studia” le mosse del cigno, del gatto o del merlo o di un cane per poi rielaborarle in un circo fantastico di sinestesie  che però riguardano anche la mente umana. Ad esempio:  Il levriero che cammina non per una semplice strada ma “per il pensiero” è un’immagine emblematica.

Del resto le immagini proposte sono anche “scomode” nella loro apparente semplicità. Chi pensa di addentrarsi in questa selva con atteggiamento semplicistico deve subito ricredersi perché ci pensa Azzurra a ricordarci che il poeta non è una “panchina” su cui sedersi per riposare, in cui cercare evasione o distrazione ludica. E’ un ammonimento a riflettere sulla necessità di affinare una volta per tutte le nostre percezioni, a non dare più alcunché per scontato e a “guardare” oltre osservando. Solo così potremo immaginare quel “salto” che ,evocato o reale, ci farà imparare a “volare”.

Il mondo “cambia” se ammirato  con altri occhi da quelli della quotidianità…ma il mondo cambia anche se noi non lo vediamo cambiare; provvede la natura stessa a farlo cambiare o solo trasformare temporaneamente con i suoi fenomeni atmosferici: la pioggia, oltre a far uscire le “rane” da sotto le foglie per bere, rovescia la terra e il cielo come due contenitori reciproci , i vetri realizzano disegni grazie alle gocce di pioggia non lasciandoci soli, il “vento” cambia l’ordine delle cose… Però allo stesso tempo non si sminuisce il ruolo dell’essere umano, che è prezioso a modo suo anche perché da lui arrivano i contorni sfumati delle parole che a tutto ciò danno un senso. “Prima” di tutto questo mondo così descritto da Azzurra, mancava quel “pezzetto” ,cioè IO, che può essere la poetessa stessa o una persona cui si dedica il brano. E’ dunque una sorta di “biglietto d’invito” a STARE nel mondo dove ci è capitato di nascere,  che nella sua brevità racchiude TUTTO con poche parole. E anche in questo consiste l’abilità del vero sinestesista.

 

L.M.

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“NON SONO CAPPUCCETTO ROSSO” di Roberta Nicolò (Ma.ma edizioni, 2015)

E’ un azzardo. E’ un azzardo provare a scrivere un commento su una storia così delicata, profonda e agghiacciante. E’ sempre un azzardo qualsiasi tentativo di descrivere ,razionalizzare, “poeticizzare” o anche solo “entrare dentro” una vicenda così gigantesca nella sua “piccola dimensione”.  E’ un rischio che si può correre solo se si lascia che il cuore faccia prevalere le sue ragioni , o meglio la sua urgenza . Roberta Nicolò accetta di lasciarci entrare nella sua storia di violenza subita da bambina e poi con le logiche difficoltà del caso elaborata in maniera molto graduale nel corso degli anni.

Viene alla mente il titolo un film del 1994 di Alessandro D’Alatri “SENZA PELLE”. Ecco è proprio senza il filtro di una pelle che fungerebbe da scudo protettivo che si può vivere appieno il significato profondo di una storia così.  Questa “bambina” viene fatta emergere dal passato nel vortice silenzioso dei ricordi della donna che ora è essa stessa  nel frattempo diventata.  La vicenda peraltro era già stata raccontata come fatto di cronaca dai giornali dell’epoca che avevano riportato la stessa dopo l’esito del processo per abuso sessuale di minori nei confronti dell’uomo accusato e condannato in merito. Ora però è il turno della protagonista suo malgrado che la racconta in forma di racconto anomalo.

L’elemento che risalta è la scelta di raccontare la sequenza delle tappe di rielaborazione progressiva in ordine sparso, senza seguire l’ordine temporale. Quasi fosse una tempesta di sensazioni che non sono logicamente riordinabili. Del resto è lei stessa a ricordarci che la verità , oltre a rendere liberi, ha bisogno di SPAZIO, più che di tempo. Il tempo c’è ma è una dimensione che qui va dilatata, rivoltata, senza dettami logici. C’è bisogno più che altro  di sinestesia , di far combaciare i dettami dei vari sensi . La protagonista rileva che le cose “quasi mai si vivono sul serio”; e una vicenda forte come questa rappresenta l’occasione per “concederselo”.

Roberta “parte” dalla fine del tempo della narrazione  (i suoi 43 anni) per arrivare al “prologo” ; paradossalmente questi due punti coincidono con la consapevolezza e l’elaborazione del lutto, come a indicare un cerchio che si chiude , una sorta di “morte e rinascita” che si è ora compiuta  e dove la vita piena della protagonista può ora proseguire nella sua pienezza proprio perché si elabora ma non si può dimenticare, non si deve dimenticare. Ma anche qui  c’è un paradosso, che emerge negli attimi in cui la “bambina” del passato non vuole ricordare, e i continui black out della memoria intervengono come un’emergenza a salvarla dal baratro dell’orrore, mentre le circostanze sinestetiche arrivano come avvoltoi a farle riemergere quell’unico inesorabile momento della sua storia che pesantemente la ha condizionata; Si tratti di un odore di pavimento a linoleum o due innamorati che si baciano nella loro innocenza sotto un albero, tutto concorre a “non risolvere”. E anche “nascondersi” diventa una facile forma di rifugio, quando per luogo di riparo si intendano i momenti di gioco svago e confidenza con gli amici; Ma è un “nascondersi “ solo apparente, se i “lampi” del passato riaffiorano a ogni piè sospinto. Il titolo di un altro film italiano del 2005 di Marco Tullio Giordana è rivelatore in questo senso “Quando sei nato non puoi più nasconderti”. In un percorso simile i momenti di sport di difesa personale assumono una funzione di vera e propria educazione civica, nel momento in cui i sensi che da un lato sono la causa di tormento per la bambina, dall’altro vengono “rifunzionalizzati” nell’ obiettivo ultimo della conoscenza dell’altro come avversario da combattere ma anche come semplice interlocutore da affrontare; ecco che dunque la direzione dello sguardo, le tecniche di respirazione e di propriocezione portate al massimo, come anche nel teatro (non a caso si parla di “imparare per imitazione”, come in parte si può e si deve fare nelle discipline teatrali), risultano l’arma vincente per affermarsi e VINCERE non solo o non necessariamente sull’altro ma più che altro per se stessi. “QUI ED ORA e senza guardarsi indietro ma solo avanti”.

La tecnica narrativa inconsueta assume tratti estremi quando ogni singolo vocabolo è separato da un punto anche all’interno di una frase. La forza e la perentorietà del riscatto della protagonista vengono così a trionfare anche nella semantica . E come lettori si è chiamati ad una prova di forza grandissima quando , man mano che si percepisce che ci stiamo avvicinando al momento decisivo e rivelatorio , la narrazione diventa quasi insostenibile; è il momento del flash in cui la bambina qui donna , descrive una scena strana, come in un sogno , protagonista un cantante rapper forse qui immaginato all’interno di una scena virtuale , in atteggiamenti di difesa e di lotta. Da questa scena onirica e sconnessa arriviamo alla ricostruzione finale del “fatto”, che viene finalmente descritto nella sua chiarezza. E qui l’articolo di giornale d’epoca giunge come una liberazione, un soccorso  , una necessità di realtà cronachistica dopo tanto vagare per intuizione da parte del lettore nei meandri della memoria della narratrice.

Con che diritto si può aggiungere parole di commento a una vicenda ? Quello che ognuno può imparare lo può solo custodire nell’intimo; L’unico vocabolo appropriato è imparare. Addirittura come la protagonista suggerisce possiamo imparare a piangere. Ci sono molti modi per piangere. Lo si può fare da soli ma forse è giusto , come diceva Giorgio Gaber , “tornare fra gli uomini anche per piangere”. Torna pure fra gli uomini, bambina. Ora lo sai anche tu che nulla ti può far male. E se noi impariamo questo ,che è il prezioso insegnamento che tu ci dai, non hai più nulla da temere. L’eventuale paura che la tua vicenda ci può fare, la affronteremo insieme. Solo allora e solo nell’intimo , nell’ombra, il NOSTRO piccolo mondo può magicamente trasformarsi e rigenerarsi.

(L.M.)

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“LE CARAMELLE DI ROSSANA” di Rossana Girotto (Evolvoedizioni ,2015)

 

Di fronte a una fiaba c’è una difficoltà di fondo: l’imbarazzo della scelta della chiave (o delle chiavi ) di lettura. Dal puro piacere del racconto ai significati più o meno reconditi, si sarebbe tentati di dire che tutto è lecito. E il sottotitolo di questa raccolta: “Dieci racconti da gustare per bambini di ogni età” sottolinea l’”apertura” interpretativa a seconda del lettore e “solletica” letteralmente il palato di chiunque.

Ebbene non ci resta che aprire il “cofanetto” di Rossana Girotto e “scartare” queste caramelle , ovvero piccoli e deliziosi racconti che hanno spesso protagonisti , oltre ad esseri umani, anche animali o esseri fantastici. La sensazione centrale è quella che l’autrice  voglia far incontrare le parti più disparate del nostro io in un arcobaleno di sensazioni razionali e irrazionali. Tra gnomi burberi , fate del lago, gatti curiosi e intraprendenti, api tristi , balene trovatesi per caso nel fiume  e poi esseri umani che combattono con le paure di sempre  e gli “inquadramenti” nel mondo normale da cui forse si vorrebbe evadere…ci giostriamo in un continuo giuoco di rimandi fra realtà e finzione , realismo e fantasia che ci trascina in un vortice incostante e coloratissimo di ritmi sensazioni e percezioni che coinvolgono letteralmente tutti e cinque i sensi.

Le prove migliori di questa raccolta ci sembrano quelle redatte nella forma del racconto più breve . In particolare tre di questi sono meglio rivelatori dell’abilità di Rossana a fondere più aspetti : “Il piano di Oscar”, “Io –l’uomo dell’acqua” – “Sbrigati Mozart!”. Nella prima un gatto curioso e intraprendente cerca di studiare i comportamenti umani per acquisire anch’egli a sua volta la parola, illudendosi che la “pozione magica” siano il caffè o le sigarette…Questi ultimi a lui , felino, sembrano le uniche modalità grazie alle quali gli esseri umani acquistano l’eloquio, restando muti in altri casi. Nella seconda un umile acquaiolo si immagina invece di recare a domicilio bottiglie di acqua, di poter portare bottiglie ripiene di cielo, in varietà infinite a seconda di dove ogni cielo si affacci; nella terza si “rivisita” la vicenda del bambino prodigio della musica , facendolo “riscattare” dalla noia degli esercizii  tecnici  quotidiani alla tastiera; il piccolo Wolfgang Amadeus è soggiogato dalla volontà paterna di farne un protagonista assoluto; un giorno decide di “ribellarsi” scrivendo una musica semplice che ha il privilegio di uscire dal cuore e di derivare da un “sogno” e da qui un nuovo corso delle cose prende vita: la “dolce armonia” delle sue note SCALDA IL CUORE anche dei severi genitori e la sua carriera non sarà più fatta di esercizi aridi e sterili ma di musica ver a e propria , destinata a restare e a vincere il tempo.

La forza dell’autrice sta nel voler “andare oltre” le apparenze della realtà ma anche della fantasia; Come direbbe Jack Kerouack , nel “capire anche oltre quello che c’è da capire”, in una curiosità mai appagata per soddisfare la quale sembra necessario prendere in prestito anche i “sensi” che appartengono non agli esseri umani ma a esseri animali o immaginari; non a caso nel racconto “Il sole di mezzanotte” (la storia di un seme che viaggia a lungo per diventare poi una betulla nei fiordi) dice “Non voglio credere che il mio viaggio finisca qui!”. E forse è in queste parole che si può riassumere l’invito di Rossana ad essere sempre curiosi , a “prolungare lo sguardo” dentro e fuori di noi che possiamo anche “trasformare” le circostanze e farle moralmente vincere dove non arrivano i fatti .

Può essere interessante anche notare l’invito allo “scambio” come risorsa per l’arricchimento e l’accoglimento reciproco…è forse il messaggio centrale del primo racconto ”Lo gnomo di Curiglia”. Anche se forse penalizzato da una lunghezza un po’ sproporzionata rispetto al “mood” della raccolta intera, offre lo spunto per una riflessione sul tema della riconciliazione dopo astii e battaglie pregresse e irrisolte nel tempo e che condizionano l’ambiente e la vita di una comunità: L’atavico odio fra lo gnomo e la fata del lago può essere sanato dalla restituzione dei diademi dallo gnomo alla fata e della dolcezza del miele che solo la fata può far tornare per la gioia dello gnomo ,che di miele è goloso, e anche delle api che lo producono. Interessante il sottofondo della politica in questo racconto , in quanto tutti i fili sembrano in apparenza “tirati” dal sindaco di Curiglia, che dopo la lieta risoluzione della vicenda afferma di non avere ambizioni se non quella del buon andamento del suo paese. Ma lo “scambio” inteso  in senso culturale lo si ritrova anche ne “Il Natale di Rachele” : bella l’idea di mettere a confronto la diversità di religione e di costumi proprio nell’occasione delle festività , come opportunità per un avvicinamento e non uno scontro.

Il libro è corredato da illustrazioni che ne esaltano lo spirito vivace e tenero al tempo stesso e l’idea di affidare ogni fiaba ad un illustratore differente contribuisce a colorare ulteriormente questa girandola sinestetica di sensazioni che la Girotto da prova, nel suo ambito, di padroneggiare in maniera sagace e arguta…come i protagonisti delle sue storie. A tuffarci nel suo mare di colori !

L.M.

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“I CARNEFICI” di Daniele Biacchessi (ed. Sperling & Kupfer, 2015)

 

“Senza memoria non c’è futuro”.  E’ con questo spirito che dovremmo ogni giorno guardare a qualsiasi gesto quotidiano , qualunque esso sia , se vogliamo essere pienamente coerenti  con la dignità di ogni nostra azione . Ma, retorica a parte, è persino banale dire che ci sono pagine di storia spesso trascurate che invece andrebbero riscoperte perché ,come diceva Mao tse Tung, da sempre è il popolo che fa la storia, anche se poi sono i padroni che ce la raccontano. Daniele Biacchessi , giornalista e scrittore, nella sua opera più recente “I CARNEFICI” , racconta con piglio cronachistico , narrativo e commosso ,l’estate di sangue del 1944, che a regime caduto ma a liberazione ancora di là da venire, macchiò l’Italia di tragedie immani tristemente passate alla storia ma forse non abbastanza raccontate; tra di esse la strage di S.Anna di Stazzema, ma anche quella, meno nota ai più, di Monte Sole o altre ancora. Tutti paesi molto isolati dove ancora oggi, come allora, esistono palesi difficoltà a vivere in contatto col mondo esterno. Ecco dunque che ci viene presentata l’ immagine calda e commovente del vecchio nonno Giuseppe, ex insegnante di storia, che in una sera di fine estate ,nella casa di famiglia sull’appennino Tosco – Emiliano, mostra al nipote Carlo alcune fotografie ingiallite dal tempo per narrare la battaglia decisiva combattuta tra occupanti  tedeschi  con la connivenza della Repubblica di Salò e Partigiani Italiani con l’appoggio degli “Alleati” americani.

Il “salto generazionale” pone palesi difficoltà di approccio non solo per la “diversità di mentalità”, ma anche per il differente approccio tecnologico, in cui il valore della fotografia cartacea non può comunque essere soppiantato dalle informazioni su internet che forse il nipote dà per scontato che possano superare una volta per sempre le vecchie tecniche.

Salta all’occhio la precisione della GEOGRAFIA  degli eventi narrati che va di pari passo con la precisione della memoria. E’ una sorta di geografia dell’inquietudine dove ogni particolare dettaglio risulta imprescindibile, come pure l’urgenza che emerge fra le righe quando il narratore si direbbe che ricerca la pace derivante da gesti di tradizione come quelli di una preghiera ,(la religione dunque vista come conforto della memoria).  Ma la memoria  è un obbiettivo  da difendere con le unghie e con i denti anche perché più crudeli sono i fatti più alto è il rischio che si tenda a “insabbiare” per evitare che responsabilità postume vengano a galla.

L’impresa non semplice di Biacchessi è quella di una CON – FUSIONE nel senso etimologico della parola come sinestesia, fra elementi vari. Cibo , ambiente, ricordo , elenchi di numeri e nomi quasi “telefonici” si fondono in una necessità documentaristica non sempre facile da seguire e “ritenere a mente” appunto, in una POESIA del presente e del passato. La geografia dell’inquietudine – cui si accennava prima –  assume toni quasi beffardi quando la sinestesia  di fonti ci conduce alla funzione qui assunta della MUSICA: ad essa  spesso si dovrebbe  ricorrere per un’evocazione di coraggio e conforto ; invece essa  è qui rappresentata dall’organetto con cui il soldato nazista annuncia l’arrivo delle SS che poi avrebbero operato per sequestrare gli ostaggi  giungendo a frotte senza pietà, massacrando nel terrore uomini donne e bambini innocenti. Le immagini forti risultano quasi al limite della sostenibilità quando ci si presenta un sacerdote che eleva al cielo il cadavere di un bimbo di pochi mesi trucidato disumanamente, per chieder una pietà che verrà criminalmente disattesa.

In effetti nella logica nazista non esiste l’umanità ma semmai la FUNZIONE: come leggiamo nel capitolo “L’orrore tra i vigneti”: “Le SS tolgono l’umanità e le assegnano una funzione. I civili sono testimoni, dunque nemici da abbattere ad ogni costo”. Qualsiasi domanda, legittima e sacrosanta, su come un uomo possa arrivare a livelli così bestiali di crudeltà può forse essere soltanto soddisfatta rifacendosi all’ipotesi che prospetta Bendetta Tobagi quando, nel suo libro “Una stella incoronata di buio” si sforza di capire le ragioni dei criminali del terrorismo negli anni ‘ 70 e che forse sono adattabili anche alla criminalità nazista: Chi si macchia di tali efferatezze è perché è sensorialmente deficitario : è come se fosse nato handicappato psichico e gli mancasse ,(anziché uno dei cinque sensi come la vista l’udito o un anche un arto), l’umanità dei sentimenti. Non ce l’hanno e non possono capire la pietà e la solidarietà umana : torturare e uccidere è per loro  cosa normale , come eseguire dei semplici ordini d’ufficio.

La beffa finale arriva quando ,a distanza di anni e a processi tardivamente compiuti, chi è colpevole o non paga perché già morto o sconta pene tutto sommato lievi rispetto alla inqualificabile disumanità di gesti che mai potranno essere perdonati e per cui non si potrebbe mai pagare abbastanza. O peggio arrivano indulti da personalità da cui ci si aspetterebbe  forse qualcos’altro che un gesto di “clemenza” per crimini così efferati. Purtroppo a prevalere è una non meglio precisata “ragion di stato” in nome della quale si occultano prove e indizi che potrebbero risultare decisivi per fare almeno luce su questi tragici eventi. Emblematico è l’episodio dell’”armadio della vergogna” che si scoprirà soltanto nel 1994 e solo grazie alla tenacia di un magistrato  coraggioso e caparbio (Antonino Intelisano), impegnato nel processo contro il capitano delle SS Erich Priebke. Dopo molti anni emergono alcune verità storiche mai del tutto affrontate, ma ci si rifiuta di dare corso alla scoperta delle responsabilità politiche anche della classe italiana, più preoccupata di dispensare “indulti in nome della pacificazione” (cioè in nome dell’IMPUNITA’) che di arrivare alla verità ultima degli eventi.

Come cantava De Gregori “LA sera scende come un’emergenza sulla città”. Qui invece il messaggio finale nell’ultima immagine di nonno e nipote, si direbbe che l’emergenza è rappresentata dalla SPERANZA nascente dalla consapevolezza che a sua volta solo dalla memoria può essere partorita , perché “nulla vada mai disperso e dimenticato”. Perché quel “paese della vergogna” , già decantato da Biacchessi, possa almeno in parte salvarsi da quell’omertà che pare essere una delle sue caratteristiche fondamentali forse addirittura da prima della sua nascita ufficiale. Perché se è vero che le piccole storie del piccolo popolo sono la voce viva di una storia, che allora questa “piccola storia” sia una storia di vita e non di morte.

(L.M.)

 

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